Larthi di Cere: etrusca o babilonese?
Una importante scoperta dimostrò che dalla metà del VII secolo a.C., l’Etruria attraversò un periodo di grande prosperità.
Il 22 aprile 1836 a Cerveteri l’arciprete Alessandro Regolini e il generale Vincenzo Galassi aprirono una tomba ricca di materiale archeologico con gioielli d’oro che rappresentano il più pregiato lavoro dell’oreficeria dell’Etruria. L’intero materiale venuto alla luce dimostrò la stretta parentela culturale ed artistica che legava l’Etruria del VII secolo a.C. ai paesi del Vicino Oriente.
Ciò che venne alla luce dalle buie stanze della tomba Regolini-Galassi, destò una sensazione unica: mai si erano ritrovati in un solo tumulo tanti e tali tesori. Nella tomba erano seppelliti due inumati e un incinerato. L’incinerato – un uomo – occupava la nicchia di destra; nella cella principale una donna, distesa sul suo giaciglio con il ricchissimo corredo di oreficerie e di bronzi; nell’anticamera un inumato che aveva con se un bacile di bronzo ed uno scudo.
Quali siano stati il rango sociale, l’importanza e la sorte della donna, adorna come un’immagine divina sepolta nella tomba Regolini-Galassi della Necropoli del Sorbo, diventa una questione fondamentale data la grande sfarzosità del corredo, rispetto al quale il contenuto delle tombe villanoviane pare barbarico e primitivo.
I segni di proprietà sugli oggetti d’argento dell’inumata dettero solo il suo nome, Larthi e le scarse notizie storiche di Cere non ci tramandano niente su questa donna: Larthi riposava ricca e solitaria nella sua stanza.
Nessuno dei due uomini seppelliti poteva essere suo marito, perché secondo gli usi in vigore tra gli Etruschi egli sarebbe stato sepolto con lei, nella stessa camera. Forse in vita la defunta aveva una dignità così alta che l’innalzava sopra tutti gli altri, persino sopra il proprio uomo, tanto da dover restare sola nella sua stanza?
La donna portava una veste pesante, coperta artisticamente da ornamenti d’oro, aveva una collana con ciondoli di ambra, montati in oro e spirali d’oro che circondavano i capelli ricci; un fermaglio per la cintura, fibbie, bracciali, orecchini e ornamenti d’oro sulle scarpe.
Un bracciale aureo (come un altro lì ritrovato) reca alle estremità dell’apertura la raffigurazione di scene bordate da una treccia e ripetute anche all’interno; la decorazione presente al centro, una potnia theron, divinità femminile abbigliata da lungo vestito ai cui lati compaiono due leoni rampanti, mentre alle spalle un uomo è raffigurato nell’atto di trafiggere le belve.
Ma domina su tutto una lamina d’oro, lunga 42 cm e larga poco meno. Essa ha la forma di una pettorina leggermente concava e foderata con un’anima di rame. La superficie è coperta da strette strisce parallele all’orlo, totalmente riempite a loro volta da ornamenti orientalizzanti.
I rari pezzi simili alla pettorina ritrovati in Italia confermano che si tratta di un emblema di dignità riservato soltanto a pochi prescelti; un elemento che compare solo per un periodo di tempo limitato e dal punto di vista stilistico, basato su connessioni con l’Oriente.
Infatti, prendendo visione dei prodotti dell’arte e dei ritrovamenti avvenuti nel Vicino Oriente ci avvicineremo alla sua origine e importanza.
Su una ciotola di bronzo da Nimrud, che si trova a Londra nel British Museum, al carro da caccia del re, che si allontana rapidamente, si fa incontro una sfinge alata che indossa un pettorale simile per forma e grandezza a quello della defunta della Tomba Regolini-Galassi.
Più direttamente abbiamo il confronto con la placca in oro di una statuetta d’ambra nel Museum of Fine Arts di Boston, che rappresenta il re assiro Assurnasirpal II (883-859 a.C.) con la pettorina del sacerdote regale. Ma di più vale la descrizione di un analogo oggetto che Mosè fa preparare per Aaronne su consiglio di Geova come “pettorale del giudizio”, portato sopra la veste che faceva parte dei paramenti sacri del gran sacerdote. In definitiva un pettorale del genere era segno della massima dignità: solo gli eletti potevano indossarlo e portarlo in pubblico.
Viene da pensare che tali lavori in oro emanavano la potenza rituale e lo splendore sovrano, come il mitico Vello d’Oro e l’Egida di Athena.
A giudicare dalle preziose gemme e dalla quantità di doni votivi posti accanto a Larthi per l’ultimo riposo, doveva trattarsi di una personalità importante: una principessa-sacerdotessa forse di origine babilonese.
Chissà se il nome della ricca defunta possa chiarire la sua origine ?
Rischiando un po’ potremmo dire che i Lartii etruschi fossero di origine mesopotamica. Come rivela il nome Larcius, cognome patronimico derivato dall’etrusco Lars.
Tutto ciò ci porta molto lontano e a credere in un collegamento con la dinastia di Larsa dell’omonima città che dominò nella Mesopotamia per molti secoli (come il grande legislatore Hammurabi, 1750 a.C.).
La città di Larsa cessò di essere abitata dopo la conquista Persiana. Infatti, Ciro il Grande nel VI secolo a.C. s’impadronì della Mesopotamia meridionale, forse quando componenti della famiglia Larthi avevano da poco abbandonato la città per venire in occidente, sulle coste tirreniche, territorio già da loro conosciuto per i commerci fra le città etrusche e quelle dell’Anatolia.
Fu una dinastia di lunga durata perché il caso vuole che una famiglia dal nome Lartii sia documentata ancora in Roma durante la prima fase imperiale.
Enio Pecchioni e Roberto Testi
Gruppo Archeologico Fiorentino DLF
Firenze 2006