In cerca di iconemi del paesaggio etrusco
di L. Pecchioni
ottobe 2024
Tempo fa mi è stato fatto notare che nonostante le pubblicazioni intercorse, né nel libro Il fattore E né altrove ho presentato un repertorio sintetico – insomma un elenco – degli iconemi del «paesaggio etrusco» (1), come sarebbe da aspettarsi qualora ci si occupi appunto di un sistema paesistico. È probabile che io abbia aggirato questa necessità.
Penso che ciò sia avvenuto per ragioni diverse. Non solo perché non mi sono sentito pronto a una schematizzazione del genere, essendo comunque le mie ricerche preliminari e d’ispirazione intuitiva. O perchè la mia indole non è quella del compilatore quanto dello sperimentatore concettuale, dunque i punti di partenza sono essenzialmente letterari, forse filosofici (0). In effetti c’è altro.
Mi pare che di scritti che fanno l’elenco di questo o quel sistema di iconemi se ne trovino già abbastanza. Non solo in Toscana, dove abbiamo pubblicazioni dotte e titolate, in cui si fa la storia e la scienza dell’ulivo, del cipresso o del vigneto nei minimi dettagli, annoverandoli spesso come «iconemi». Circostanze e repertorialità analoghe si incontrano a proposito di altri territori votati alla viticoltura, di regioni e subregioni di tutta Italia. Penso che a volte l’uso del concetto sia un po’ didascalico, forse semplicistico, e conservo qualche perplessità. Già la parola icona imporrebbe di soffermarsi più di quanto si faccia abitualmente (2).
In cosa consiste effettivamente un’icona-unità elementare del paesaggio? cosa stabilisce quell’ -ema? È più importante il cipresso o i modi in cui esso si relaziona a un numero variabile di altri elementi, contesti, azioni? Ma se questo numero è variabile, possiamo realmente parlare di iconemi precisabili? Non è quella variabilità l’”anima del paesaggio”? Non è ciò che nega una definizione ad alimentarne la vitalità essenziale? E cosa dire delle implicazioni visionarie (3), quindi archetipiche, legate al singolo iconema? talvolta così vaste da poterci portare lontano nel tempo, nello spazio, nei significati … E così via.
L’idea di iconema del paesaggio, introdotta da Giacomo Turri e assunta da tempo dal mondo degli studiosi, cessa di essere utile alla mia indagine nel momento in cui è impiegata per definire il paesaggio in una descrizione “orizzontale”, anziché favorire indagini “di profondità”.
Di concetti appariscenti come iconema o altri (penso ad esempio all’icononauta di G. P. Brunetta, che ha macinato fortune nell’ambito della Storia del Cinema) ne abbiamo incontrati e citati diversi e a volte, scrivendo quelle parole, mi sembra come di guidare una “gran turismo” per andare a fare la spesa.
Credo che questi “attrezzi concettuali” debbano essere scomodati se necessario: se ci si muove a un certo livello d’intenzionalità. Spesso potremmo non farlo, ma usarli ci permette di collegarci archeologicamente a una tradizione eruditica, tavolta accademica, a tutto un sistema di significati impliciti; e ad un sistema di potenza. Studiosi importanti hanno coniato i loro concetti e una moltitudine di ricercatori, “addetti ai lavori” ma non solo, li utilizzano, “surfando” generalmente sulle questioni fondamentali custodite nelle parole.
A volte questi concetti non sono serviti ad altro che a rafforzare processi di adesione: senz’altro a “iconizzare” il maestro.
Un’ ‘icona è qualcosa di misteriosamente, paradossalmente vivo. Il suo potenziale energetico si esprime secondo un ritmo specifico ma con melodie ineffabili e rivelatorie. In antichità, questo flusso poteva addirittura prendere forma personale: il cipresso era una divinità, i toponimi dei guardiani, gli animali dei vettori iniziatici. Il concetto di iconema è incredibilmente fertile ma non può essere traslato a una dimensione di ricerca esistenziale o addirittura ontologica senza riconoscere la complessità che gli è propria, che può comportare quanto svelare. Anche perché, quaggiù, non sappiamo cosa farcene dell’ennesima descrizione delle razze di cipressi, o della storia dell’ulivo, o della geo-morfologia del Chianti o altri territori. La libreria è piena di libri ed è già stato fatto un buon lavoro da molti studiosi.
Con queste parole non voglio sminuire l’importanza decisiva che la “descrizione” ha avuto in altri ambiti o ad altri livelli. Né, figuriamoci, voglio sminuire l’entourage di Turri – mi riferisco invece a una scelta di metodo o pre-metodologica – un’inclinazione. Del resto, in passato ho “surfato” molto e non ho gran diritto di critica, se non quello che mi dà l’autenticità di un cammino indipendente, di un «procedere con decisione nella direzione di sé stessi».
Venendo alla domanda iniziale, in scritti come quelli contenuti ne Il Fattore E il riferimento agli Etruschi non è tanto storico-archeologico, quanto psicologico-archeologico. Esso conserva tutta la portata, articolata e forse insondabile, del concetto di Etruschi com’è stato intuito dal Rinascimento in poi. E ne conserva la resilienza: come un certo “spettro” abbia continuato ad albergare / danzare nel nostro rapporto con la storia e col paesaggio, emancipandosi oltretutto da un legame diretto con gli Etruschi reali-archeologici. Non si è trattato quindi di un lavoro descrittivo, né d’analisi di qualcosa che è “semplicemente” innanzi, nelle immagini, nei fatti, nella storia, nei luoghi; ma anche di un rapportarsi ad un ulteriore, talvolta oscuro, talaltra luminoso – tanto che gli stessi iconemi etruschi, se elencati, avrebbero dovuto essere presentati in duplici, se non multiple valenze.
Farò due o tre esempi, per incontrare almeno in minima parte il gusto di coloro che prediligono gli elenchi puntati. E perchè scrivere di tutto questo, etruscaménte, mi diverte.
Meloni Etruschi e altri iconemi
Melone è un concetto figurato. Una metafora con la quale, soprattutto nella Toscana orientale, sono definiti quei piccoli colli che si distinguono improvvisamente nel paesaggio rurale, celando antichi tumuli coperti dalla vegetazione che interrompono la diffusione dei campi a coltura.
Di “meloni” in realtà ce n’è in tutta l’Etruria, talvolta di dimensioni eclatanti. A partire dai tumuli scoperti nei pressi di Cortona, detti appunto Melone I e Melone II al Sodo (il secondo è noto per una monumentale scalinata-altare risalente al VI secolo a.C.). Gli esempi sono innumerevoli ma è da ricordare, tra i casi più emblematici, il Tumulo di Montetosto nei pressi di Cerveteri, coperto da una “capigliatura” di pini arruffati, irto al centro della pianura marittima. Un’immagine che potrebbe trovare molte analogie più a nord e che è familiare ai paesaggi dei pittori macchiaioli toscani, forti di un mistero, una curiosità intrinseca: nessuno sa davvero se “quella collinetta”, frutto di pennellate eleganti quanto irruente, nasconda realmente un tumulo o se si tratti di uno scherzo della natura. (Penso a un cucuzzolo tra San Donato in Poggio e Castellina in Chianti sul quale ci siamo interrogati per anni … finché qualcuno si decise a fare una buca, trovando solo terra, rocce e radici. (4)
D’altro canto, gli aspetti “visionari” possono mostrare ulteriori sviluppi e “melone” può stare anche per “calotta” o “cranio”, fuoriuscente in parte dal terreno, con la suggestione di una realtà antropomorfa sotterranea. In questo caso però dovremmo forse parlare di un altro iconema, relativo al toponimo montecalvo che indica spesso colli privi di vegetazione (luoghi già notati e “letti” dall’esoterismo, con numerosi ulteriori agganci sui quali ora sorvoleremo).
I “meloni” sono un iconema del paesaggio etrusco, in evidente associazione visionaria con il frutto omonimo, il quale ha circa la grandezza di un cranio umano. Eppure i “meloni etruschi” non esistevano in Etruria al tempo degli Etruschi ma provennero dall’Egitto in età romana. Questo invita a sintonizzarci su un’idea sincronistica di “Etruschi”. Dicendo “meloni etruschi” noi richiamiamo una realtà paesistica recente, seppur rivola all’antico – che è in noi. E dunque, è in ballo un’etruschità più generale, più “prossima”.
Altresì, i pini che si trovano oggi su certi meloni (penso ancora a Montetosto) non esistevano o quasi in antichità ma sono stati piantati lo scorso secolo.
Andando oltre alle note più visionarie, l’importanza e l’ambiguità di questo iconema risiede in dati essenziali. Come detto, il melone può celare una tomba … ma non è detto che questa esista realmente. Può trattarsi di una suggestione come di un’intuizione veritiera. Si tratta quindi, pienamente, di una affordance del paesaggio. Parte di «quell’insieme di richieste-offerte, non necessariamente veritiere, rivolte dall’ambiente a un percipiente, del quale costituiscono in un certo senso una ‘nicchia’ di significatività» (5). Il concetto di affordances, introdotto da Gibson, riguarda in generale gli “inviti del paesaggio” che catturano l’anima umana e gli animali, già dal momento dell’osservazione di un panorama.
In questo caso l’ambiguità dell’offerta ha un che di paradigmatico.
Tutto ciò che riguarda la presenza della necropoli nel paesaggio è per me argomento di grande interesse per un indagine ontologica sul paesaggio etrusco. Nel Fattore E ho cercato di suggerire come la necropoli possa corrispondere ad una sorta di “disattivazione della disattivazione” delle circostanze esistenziali che si creano nella percezione di un paesaggio (6).
“Volterrai”, “incudini” e molto altro
L’ambiguità dei meloni etruschi è riscontrabile in altri iconemi che considero tipici del paesaggio etrusco, seppur in diverse gradazioni e modalità.
Nel Fattore E ho rammentato in più circostanze i “volterrai”, colline piccole ma particolarmente irte, spesso rocciose che si notano nei paesaggi di alcune lucumonie etrusche. La definizione è tratta dal nome di una rupe nei pressi di Volterra, un caso emblematico di questo genere di presenze. I volterrai hanno talvolta nomi riconducibili, appunto, a Volth, divinità invisibile del cambiamento (7).
Alcuni volterrai sono stati abitati in antichità o hanno accolto degli accampamenti militari in epoca più recente (come quello dell’Elba), ma da molto tempo sono generalmente disabitati – forse non solo a causa della loro scomodità.
Questi piccoli colli, visibili dalle città, sembrano tracciare il senso di una direzione, proporzionandosi a una coerenza contestuale, che ci sfugge. Credo che la loro presenza dovrebbe essere studiata in modo più approfondito da archeologi e archeoastronomi. Ipostasi viscerali del paesaggio, sembrano prendere il ruolo di sentinella o manifestare la presenza dello stesso dio di cui talvolta portano il nome. La loro valenza è tutta da definire ma è chiaro che in antichità, come oggi, possano caricarsi di un ché di sinistro, restando al contempo familiari.
Sempre a proposito di iconemi legati alla morfologia del paesaggio etrusco, ricorderei le “incudini”. Si tratta di grossi colli di forma trapezoidale, con due cime dall’altitudine non troppo diversa, e con una specie di pianoro nel mezzo che permette la fondazione di un insediamento. I casi sono vari: Roselle, Tarquinia, Fiesole, Impruneta, Chiusdino …
La presenza di due cime, ambigua per definizione morfologica, è talvolta interpretata nel suo legame a fattori sacrali diversi ma coerenti. Sembra che i templi sulla collina più bassa fossero legati a divinità infere o comunque connesse al rapporto con la dimensione ctonia (8), quindi a valori “sinistri”. L’idea dell’incudine – come caso più antico di luogo di insediamento villanoviano / etrusco – conferma le qualità visionarie della cifra del paesaggio etrusco. Un’incudine, che dir si voglia, è qualcosa che forgia, che accoglie nell’urto, la cui etimologia conserva, persino, Odino (udinis). A complicare il tutto, notiamo che l’incudine del paesaggio etrusco appare forse come un incudine “ribaltata”.
Potremmo occuparci di molto altro, giungendo magari ai fiammeggianti cipresseti, ai dinamici vigneti, ai dorati oliveti, ma anche a qualche bizzarria come “uova” (vedi una strana conformazione nei pressi dell’etrusca Montereggi di Montemurlo) “pere” (vedi una pietra considerata etrusca in una piazza di Pisa) o altro; scovando intuizioni ulteriori, strizzando l’occhio a Dioniso e non solo. Ma, tornando al paesaggio, è chiaro che il nesso decisivo risieda nelle qualità delle affordance, nell’ambiguità della loro fenomenologia, capace forse di ospitare, in nuce, lo stesso sentimento di un “mistero etrusco” (tanto diffuso quanto approssimativo alla definizione).
Inoltre penso, ribadisco, che un iconema sia qualcosa di vivo, che rappresenti una “circostanza di fantasia”, con un ruolo di realizzazione della stessa ma anche di svelamento, persino di negazione di un possibile ulteriore, reale o fantastico che sia.
Dobbiamo sentire la paura di quel contadino, che lotta contro gli dèi del clima per salvare i suoi oliveti; o il fuoco del cacciatore, che punta alla macchia nel panorama per scovare il suo cinghiale; o l’eccitazione dell’archeologo, che punta a quel “melone” che potrebbe nascondere un tumulo etrusco … ed altro, altri. Alle loro tensioni esistenziali, alle loro eccitazioni, alle loro realizzazioni e defezioni.
Detto tutto questo, ho preferito limitarmi solo ad alcuni concetti, senza sconfinare nelle «più generali generalità» come nel particolarismo storico-geografico-naturalistico.
Ma poi se non si fosse capito, questa in fondo è una landing page.
Chi vorrà troverà altro nel Fattore E, che è sempre disponibile in un formato dinamico, in periodico aggiornamento – chissà che questo stesso articolo non sia destinato a continuare lì, in qualche riedizione, prima o poi.
Note
0) Giungo a coniare idee e prospettive attraverso la scrittura stessa, nell’ambito di un legittimo “uso di sé”, spesso svincolando il flusso da forzature analitiche.
1) Sono uno dei pochi ad aver suscitato lo studio di questo concetto specifico e sono disponibile al dibattito, a prescindere dal taglio esistenziale delle mie ricerche. Altri (geografi, archeologi) si sono occupati di paesaggio italiano, italico, toscano o – raramente – etrusco, sulla base delle proprie discipline.
2) È indicativo che per parlare addirittura di invisibile, un filosofo come E. Franzini dedichi molte pagine al concetto di icona e alla sua evoluzione. Elio Franzini, Fenomenologia dell’invisibile, Raffaello Cortina editore, Milano 2001.
3) Non riesco a non continuare a pensare alle prospettive tracciate da K. Kerényi nelle sue ricerche su Dioniso.
4) Non ho idea di chi possa essere stato.
5) Tonino Griffero, Fisiognomica emozionale. Affordances, estasi, atmosfere, in Lebenswelt: Aesthetics and Philosophy of Experience, 6, Milano 2015, pp. 69-70.
6) Il Fattore E, ricerche sul paesaggio etrusco, Press & Archeos, Firenze 2020, p. 93
7) Ibid., p. 55
8) Ludwig Klages, La Realtà delle immagini, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2005