La cucina etrusca. A tavola col Lucumone

Le fonti antiche non danno molte testimonianze sulla cucina degli Etruschi, a differenza di quanto avviene per i Greci e i Romani. Diodoro Siculo (I secolo a.C.), nella sua Bibliotheca (V, 40, 3),  ci tramanda che: “essi abitano in una regione che produce di tutto e, impegnandosi nel lavoro, hanno frutti con cui possono non solo nutrirsi a sufficienza, ma anche concedersi una vita di piaceri e di lusso…”.
Dalle ricerche archeologiche effettuate nelle zone dell’Etruria possiamo dedurre che  fin dall’età del bronzo, con le culture di Rinaldone e Remedello, esistevano piccoli insediamenti a base agricola con terreno coltivato nei pressi dell’abitato e pascolo negli spazi più lontani.
Con l’Età del Ferro (culture Protovillanoviana e Villanoviana),  si afferma la “policoltura”, basata su un’ampia serie di cereali e legumi, sulla coltivazione dell’olivo e sull’allevamento intensivo degli animali domestici, le cui carni  costituivano uno dei prodotti essenziali per la loro cucina. Semi di vite rinvenuti in tombe nell’area del Chianti mostrano che furono gli Etruschi a introdurre la vite dall’Oriente in Italia, e ad acclimatarvela.

I “prìncipi” Etruschi (fin dall’VIII secolo a.C.) erano soliti consumare due pasti al giorno abbondanti e succulenti; si mangiava soprattutto maiale, ma anche pecora e montone. Il maiale era l’animale più allevato per la grande quantità di querce, lecci e cerri, e dunque di ghiande, che ricoprivano il territorio.
La presenza notevole di maiali in Chianti (nota zona etrusca), è documentata a Radda dove da epoca secolare si teneva nel terzo martedì di dicembre un’importante fiera di “animali neri” (chiamati così per il loro colore) ove veniva fissato il prezzo della carne di maiale per l’intero Granducato. Dunque è molto probabile che in epoca etrusca i poveri allevassero il maiale, ma che dovessero spesso accontentarsi dei prodotti a base vegetale. I legumi  più usati erano le lenticchie, le fave, i ceci; tra gli ortaggi, le lattughe, il cavolo, il porro. Sembra che solo i ricchi mangiassero carciofi e asparagi. Ma, forse già in epoca etrusca, si pensa che nelle campagne l’alimentazione fosse basata sulla castagna, determinante per la sopravvivenza di intere generazioni (specialmente nei periodi di carestie e pestilenze).
A differenza dei Romani gli Etruschi erano ghiotti delle galline e delle loro uova. E’ probabile che raramente mangiassero anche il gallo, animale sacro che allietava con il suo canto mattutino il risveglio della natura, ed era per questo considerato simbolo di “resurrezione”.
Con grande cura si allevavano e s’ingrassavano i ghiri, la cui carne era considerata squisita.
I grossi bovini venivano utilizzati per lo più per il lavoro nei campi, anche se nelle immagini della tomba Golini I (Orvieto) è raffigurata una scena di banchetto con la macellazione di un bue.
La carne veniva bollita in grandi calderoni bronzei, oppure arrostita sulla graticola o, ancora, infilzata a pezzetti in spiedi; erano anche diffuse la salazione e l’affumicatura per la conservazione.
Non mancavano certo il latte e i formaggi.

Su tutte le tavole, ricche e povere, era presente la frutta: pere, mele, noci e mandorle. Gli agrumi (arance, limoni, cedri) provenienti dall’oriente, erano sconosciuti sulla tavola degli Etruschi e furono coltivati in Italia solo verso la fine dell’Impero Romano.
Nei momenti di carestia che travagliarono Roma nel IV secolo a.C., fu proprio l’Etruria, con la Campania, a provvedere al rifornimento di cereali. L’olivo, oltre ad esser destinato alla produzione dell’olio, era consumato come cibo; noccioli d’oliva sono stati trovati a Cerveteri in una tomba del VI secolo a.C., e in un relitto rinvenuto nei pressi dell’Isola del Giglio, che trasportava un carico di anfore ricolme di olive conservate. Tali anfore, prodotte soprattutto a Vulci e a Cerveteri, furono utilizzate fin dal VII sec. a.C. dagli Etruschi per il loro commercio (d’olio e vino) nel bacino tirrenico e nei centri della costa meridionale della Gallia.

L’Etruria, con le sue colline boscose, la macchia e la pianura acquitrinosa lungo la costa, doveva costituire un ambiente ideale per cervi, cinghiali, lepri, caprioli, uccelli acquatici. Ma le raffigurazioni di caccia dell’arte etrusca, potrebbero riflettere solo in parte la realtà quotidiana dell’attività venatoria, e cioè quella connessa all’ideologia aristocratica: caccia come “sport”, ma anzitutto come procacciamento di cibo.
Nella tomba Golini I, oltre alla macellazione del bove, sono dipinti anche alcuni volatili pronti per essere arrostiti; ma gli uccelli, come faranno dopo anche i Romani,  potevano essere cotti in un umido composto di aceto, miele, olio, uva passa, vino, menta, pepe, e altre erbe dal sapore acuto.

Malgrado l’Etruria si affacci sul Tirreno, e nel suo interno accolga numerosi laghi d’origine vulcanica, vi è scarsa informazione sull’attività di pesca; ciò è dovuto forse all’estrema deperibilità delle attrezzature usate (reti, strumenti in legno ecc…). L’unica testimonianza è una piroga ritrovata nella necropoli di Sasso Furbara tra Cerveteri e Civitavecchia, e  le scene affrescate nella Tomba della Caccia e della Pesca a Tarquinia.
Comunque, gli Etruschi, dediti a viaggi marittimi e alla pirateria, oltre alle provviste conservate dovevano nutrirsi estesamente dei prodotti della pesca. Gli antichi scrittori romani ci riportano che sulla tavola etrusca non mancava mai il “garum”, salsa ricercatissima a base di pesce fermentato con cui s’insaporiva la carne.

Gli Etruschi cucinavano principalmente all’aperto e conoscevano bene i diversi modi di cottura dei cibi. La località di Acquarossa, presso Viterbo, ci tramanda altre informazioni gastronomiche: in un edificio del sito archeologico è stato individuato uno spazio, scavato nel tufo, destinato al focolare e la presenza di un forno per il pane. Ma il pane, come lo intendiamo noi, sembra esser divenuto di uso generale solo in epoca romana. Prima il grano serviva piuttosto a preparare la “puls”, una pappa di frumento che alcuni autori romani distinguono dalla “polenta”, fatta con orzo abbrustolito e macinato.
Gli Etruschi sono considerati un popolo godereccio, anche se fino al VI secolo a.C. il cibo era consumato in piedi, abitualmente in solitudine. Solo in seguito, quando il pranzo diventò anche un momento di gestione del potere, si banchettava sdraiati sui triclini, al modo dei Greci. E in questo, l’etrusco si differenziò dagli altri popoli perché ai banchetti venivano ammesse le donne.
In particolare durante le feste e le cerimonie funebri, gli Etruschi si lasciavano andare al consumo esagerato di carni, e a grandi bevute collettive.

Il vino (non d’eccelsa qualità) veniva sempre servito mescolato a molta acqua, drogato e addolcito con orzo e miele, per favorire l’euforia e migliorare la digestione; non di rado vi si grattugiava un pizzico di  formaggio pecorino: ed ecco il “kykeion”, la bevanda degli eroi.
La gestione del vino era affidata alla donna in qualità di padrona di casa, anche se, in linea di massima, era tenuta ad astenersi da tale bevanda.
Tra l’altro, i banchetti dei nobili erano il pretesto per creare situazioni di intrattenimento erotico. Oltre alle donne di casa erano presenti le “etere”, prostitute d’alta classe e buona cultura. E neppure mancavano gli efebi, privi di vesti, ai quali erano affidate mansioni di coppieri. Così, mentre i Greci dopo il pasto dissertavano su argomenti filosofici, e i Romani su questioni belliche, gli Etruschi associavano assai volentieri il cibo al sesso.
Negli affreschi tombali vediamo le “etere” mentre si sciolgono in danze d’irresistibile seduzione, e mentre agitano i “crotali”, sorta di sonagli.
Gli uomini appaiono con pelle abbronzata dal sole, e mostrano una prestanza fisica che poco si confà con la diceria romana del “pingue tirreno”, forse inevitabile attributo d’età più avanzata. Le donne, snelle, brune, dagli occhi a mandorla, hanno rotondità di forme pronunciate, pur conservando un corpo ben modellato.

Ad oggi, esistono diversi manuali sulla “cucina degli Etruschi”, ma è quasi impossibile poter attribuire una continuità storica ai vari piatti descritti. Tali piatti potranno risalire al periodo rinascimentale e forse, per la cucina dei poveri, anche al medioevo, ma non agli Etruschi.
Infatti, per quanto gustosissimi, scordiamoci alcuni piatti serviti nei ristoranti della nostre coste toscane, tipo “l’Agnello alla brace del Lucumone”, il “capretto etrusco condito a crudo” o il “pollo vardano” (questo, tra l’altro, d’origine romana).
Forse, l’unico piatto sopravvissuto, potrebbe essere la “scottiglia” del Casentino.
La scottiglia è una specie di cacciucco preparato, anziché con pesce, con pezzi di carne di vario tipo: tocchetti di pollo, coniglio,  piccione, agnello, vitello e selvaggina, fatti rosolare e cuocere con cipolla, pepe (adesso peperoncino), erbe aromatiche, brodo di carne e vino, in una grande padella, un po’ come quella nelle mani d’un cuciniere della Tomba Golini d’Orvieto.

Infine, come dessert forse c’era già la “spongata”, una torta ripiena di miele, pinoli, uva passita e spezie, chiusa tra due sfoglie di farina. Per questo gli Etruschi, con pochi casi di carie, dovevano soffrire invece di piorrea e di paradentosi, malanni  generati da un’alimentazione con cibi ad alto contenuto calorico.

Enio Pecchioni

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