Il dì di festa. Intervista a Mario Aiazzi Mancini
a cura di Myriam Venezia
Il dì di festa è stato per me una scoperta. È un libro che si è inserito nella mia quotidianità, fatta di pendolarismo, allietando le giornate di inizio estate e con estrema naturalezza ha rapito la mia attenzione.
Quello che rende particolare questo libro è l’incisività dei racconti che ti lasciano sempre qualcosa dentro, un granello di sabbia che racconto dopo racconto riesce a costruire un qualcosa.
Mario Ajazzi Mancini è un abile scrittore, psicanalista e docente. Affianca la sua professione alla passione per la scrittura e il mondo editoriale. Il suo ultimo libro pubblicato è appunto “Il dì di festa”, edito da Press&Archeos, una raccolta di racconti dal sapore romantico ed estivo.
In questa intervista scopriremo qualcosa in più di questo libro e della collana di cui è curatore presso l’editore.
‘Il dì di Festa’ è una raccolta di racconti. Come mai la scelta di scrivere una raccolta di racconti?
Il racconto, il racconto breve è la cifra che prediligo, e la forma in cui riesco meglio a sviluppare pensieri, ragionamenti (per lo più capziosi) e vicende (immaginate o fantasticate sulla scorta di episodi vissuti). Ho fiato corto, e spesso vedo prima la conclusione dello sviluppo. Anche il mio primo romanzo (libro completo) – L’esordiente innamorato, pubblicato da Castelvecchi – è una successione di frammenti narrativi, veri e propri racconti, che compongono la storia di Thomas Argenti. Il mio protagonista. Scrittore senza opere, emblema del mio modo di procedere e figura tematica della mia ricerca in ambito letterario. Thomas scrive per non pubblicare, quasi a togliere scopo e funzione a questa attività. Archivia e destina all’oblio … pur conservando gelosamente ogni cosa dentro cartelline azzurre.
Tutti i racconti sono ambientati in estate, c’è una motivazione o semplicemente una scelta stilistica? Se sì, qual è la motivazione?
L’estate è momento ozioso e libero da impegni. Riflette quella mancanza di finalità di cui dicevo prima. Quasi un affrancamento dal fare, soluzione del nesso tragico che ci destina all’agire – qualsiasi cosa in vista di uno scopo, come ad esempio, scrivere libri per pubblicarli. Un fare che non fa niente. Idillio vero e proprio, nell’accezione che cerco di esporre in questo ultimo lavoro, accostandolo alla commedia.
Sono sempre molto curiosa di capire cosa c’è dietro la scelta del titolo, a mio avviso sempre ardua. “Il dì di festa” da dove nasce? La citazione è voluta?
Il titolo riprende la tematica dell’estate. Nella dimensione della vacanza, della sospensione dall’attività. Quel sabato infinito in cui si celebra l’assenza di mete e funzioni che sono assegnati al vivere “feriale”. Leopardi, certo, l’esperienza del naufragio come figura di un “dolce avere”, in cui l’abitudine s’infrange e rende accessibile la propria scena altra – quella festiva di cui si può intravedere solo l’apparente spensieratezza. Perché innocenza, euforia e chiarezza sono i motivi precipui del libro, declinati sull’infanzia, o meglio sulla giovinezza, l’amore (che è la ragione precipua della mia scrittura) ….
Il primo racconto di questo libro mi ha ricordato molto l’espediente usato da Manzoni nell’incipit dei “Promessi Sposi”. anche questa è una citazione voluta?
L’espediente è un cliché spesso abusato – manoscritti ritrovati e tutto il campionario conseguente. Per quanto mi riguarda, parlerei più di trucco, finzione e/o gioco di prestigio. Ho immaginato un amico editore di Thomas che si ritrova in mano quell’archivio azzurro di cartelline, dove è stipata alla rinfusa una grande quantità di materiali diversissimi – racconti, conferenze, recensioni e spunti saggistici, anche un libro di traduzioni (da cui stralcio qualche esempio). Si tratta in fondo della materia da cui attingo, sylva da cui genera la mia ricerca.
Nel leggere questi racconti ho intravisto una sorta di fil rouge che li unisce. Senza fare molti spoiler per i nostri lettori, vorrei solo sapere se effettivamente questo fil rouge che li unisce c’è o è solo un’idea che mi sono fatta? se questo fil rouge c’è, in quali emozioni/dettagli possiamo rintracciarlo?
Il filo che unisce il materiale apparentemente affastellato è quello di cui ho detto prima, la sospensione dei fini, della relazione tragica che lega alle azioni come tratto destinale. In fondo – cito – si tratta di un “invito a vivere la vita per così dire nella sua vivibilità. Solo amorosamente eccitata. Nel suo mostrarsi, nel suo farsi meramente contingente, ripartita tra possibilità e impossibilità, vissuto e non vissuto. Diciamo pure nella sua riconoscibile insensatezza, mirabile imprevedibilità – o meglio meravigliosa spensieratezza. Come un’estate …”
Questo libro si inserisce nella collana di cui sei curatore, “Nadie se Conosce”, innanzitutto vorrei saperne di più in merito alla collana e qualcosa di più sulla scelta di inserire questo libro all’interno di essa.
Il libro è stato immaginato proprio per la collana, che si è costituita (nella mia mente) sotto l’egida del “non sapere”; dall’affermazione che non se ne sa niente né della vita né della morte, della letteratura, della psicanalisi – della questione umana, come a qualcuno piace dire. La collana “opera” a mantenere attivo questo “non” – rivelandosi sostanzialmente oziosa nel suo ragionare e procedere –, attraverso la pratica della scrittura, del dubbio e dell’equivoco (cos’è in fondo questo libro?), nello speranzoso tentativo di esporre di quella questione il fondamento inoperoso, attraverso la celebrazione di quello stesso “non” di opera, probabilmente anche di vita, che si mostra ne Il dì di festa.
a cura di
Myriam Venezia