San Donato a Scopeto. Dioniso alle campora fiorentine
17 March 2025
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di Marco Mochi
(…) Anche solo l’ombra avrebbe lenito il malcontento della sparizione di quella vigna, eradicata tanto dal suolo quanto dal ricordo lapideo; anche l’ombra, dicevo, di cosa che pur non tangibile fosse stata in grado di consegnarmi – e, quindi, mio tramite, consegnarti per materia, dopo aver modellato con dita l’ombra stessa – il vino e quel vino, sacro fluido e stigma dell’immanenza; immanenza di vite e di vigna. Comunque tu la traduca vedrai sempre, in questo ludico parlare, che vo illustrandoti cosa non troppo discosta proprio da permanenza della vite, durata della vigna e quindi, o forse, da quintessenza di vita.
Dissi allora come io stesso ebbi a tramutare, cum lapide e sputo, l’aridità nociva in vite di dolce fluido. Tu bevesti il siero che ne uscì, comite mio, in indicibile copia e il dissetartene ti rese, anche se non in perpetuo, felice di canto e di risa. Mi volgo a tutta sagoma e nessun segnale, anche a sorpassare l’ombra, resta di quell’incanto che non necessita vendemmia. Che cosa è accaduto? Lapidi e sassi, di forma non vaga, ce n’è fino al trabocco. Una distesa di saxa suburbana, come per primo li nominai, che non nuocciono e non giovano, ma neppure mi parlano. Mi parlavano, invece, a voce nella notte zitta e a fischi di vento e polvere nel giorno festoso. Sai bene quanto siano comunque avvezzi, quei sassi, a dire di loro anche a voi e parlarvi per iscritto allorché risultino neutri al tatto o al palato. È nel parlarvi, con parole scritte e quindi carpendovi gli occhi, che essi vanno pungendo altresì quelle orecchie da sordi che vi siete ritrovati per troppo distrarvi, avidi che foste di frastuoni, ad ascoltare le grida urbane che sovrastano, facendoli dimenticare, i suoni soavi tutti e delle ninfe e delle mie rapite. Quella musica dolce e notturna, celata nel sibilare rigoroso della tramontana d’inverno così come nel cantico dei grilli che inonda i cieli estivi, non latita se non ai pleniluni e agli equinozi. A primavera come d’autunno potevate sentirla, infatti, tanto al lume delle prime lucciole che governa lo sbocciare dei fiori quanto al timido crepitìo della fiamma nel camino quando si accorda al turbine danzante delle foglie secche condotto da Zèfiro.
Intendo che potevate udirla, quella musica, proprio con quelle vostre orecchie che avete preferito mutare in quelle del mercante. Benché forgiate ad uso dell’ascolto di spirito le avete forzate a udire voci da barroccio. E dei mercanti diventaste, se ben ricordo, già pochi lustri dopo l’emersione della sacra pianta che io in qualche modo vi avevo donato. A San Donato, non a caso, quel luogo fu poi nominalmente dedicato da parte di qualcuno tra voi le cui le porte dell’animo, ma anche dell’anima, non si erano chiuse nonostante il mercanteggiare assiduo sui quei blocchi di pietra; pietra che vi serviva per fare case sempre più ricche e grandiose. Ricordo di avervi visto, nascosto tra i pochi arbusti di scopa che spuntavano tra quel pietrame, mentre con carri trainati da bovi asportavate saxa su saxa destinati a edificare case fortificate dentro la città.
Ricordo anche che un frate dei vostri, accortosi di una qualche mia presenza, malcelata dall’arbusto, impauritosi delle mie nudità umanissime quanto inusitate all’occhio suo, mi scagliò contro uno di quei sassi. Schivai il sasso abbassandomi al suolo come lucertola e il sasso andò a colpire dritto al centro un piccolo orcio del mio vino, posato al mio tergo. L’orcio rovinò e vi fu spargimento di rosso in un baleno; strepito ne seguì tra voi, che temeste un maleficio e inventaste grandi menzogne. La storia dell’orcio trafitto dal sasso passò di voce in voce per generazioni a venire e ne nacquero miti anche funesti. Si narrò persino, in qualche scritto cittadino di più di cento anni posteriore, che per maleficio fosse stato ucciso, da un chierico armato di sasso, un giovane della famiglia che giuspatronava quel popolo. Non a caso, perciò, si legge che l’ucciso fosse dei Pilastri, cioè degli Orciolini.
Per potermi nascondere meglio, nei tempi che seguirono l’attentato verso di me (con rovina dell’orcio e sversamento di sacro vino), comandai che gli arbusti di scopa, da pochi che erano, proliferassero in quei luoghi quasi ad infestarli. E non a caso, per lungo e lungo tempo come tu sai, quel luogo dedicato a San Donato fu nominato Scopeto. Poi vi fu l’oblio che conosci.
Ti ho così rivelato tre secreta che saprai decifrare con attenzione, comite mio, senza temerne la divulgazione poiché comunque in pochi, bongré malgré, sapranno decifrarli al par tuo.
Nulla può né deve rendermi triste, per concludere, né sconfiggere giacché io stesso fui fornitore di misterico vigore, a tacer delle scope, tanto di quei sassi tanto di quella vite generosa; so farlo e rifarlo e gliene andrò rifondendo ancora. Impugna le tue armi, comite mio e io radunerò ninfe rapite a tempo di fulmine. Parola di chi sa stare nel bosco, da cacciatore solo e notturno, ma anche nella gioia della botte siccome stretto nell’abbraccio amoroso di Arianna.
(…)