La statua in legno di vite raffigurante Tinia, vino e banchetti nell’etrusca Populonia
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La vite coltivata dagli Etruschi era ben diversa da quella attuale: non era in legno sfilacciato, curvoso, rampicante o cespuglioso ma aveva la crescita in forma dritta come il tronco di un alberello, un tronco di sostanza assai maggiore di quel che si possa oggi immaginare. Plinio il Vecchio racconta che a Populonia era conservata una statua intagliata in un unico legno di vite che rappresentava Tinia, il Giove etrusco.
Regna il mistero sull’iconografia di questa ed altre statue, in cui è probabile che Tinia, al contrario del suo corrispondente greco-romano, fosse rappresentato giovane e inberbe e che quindi, associato alla vite, richiamasse al contempo suggestioni dionisiache.
Pianta di vite secolare (da vitevinoqualità.it)
Per crescere più alti e più forti gli alberelli di vite venivano piantati quasi sempre appoggiati ad altre piante, specialmente alberi da frutta come l’albicocco, originario della Cina, forse giunto in Italia con gli stessi Etruschi attraverso il medio oriente. Gli alberi venivano a loro volta circondati da grosse e fitte siepi di alloro per essere protetti dagli animali alla ricerca di pascolo.
Il vino era chiamato dagli etruschi uinu. La parola non sarebbe d’origine greca ma deriverebbe dal semitico ainu che significa fiume o acqua che scorre…abbondante come il vino quando nei simposi veniva miscelato appunto con acqua e versato da un recipiente all’altro per poi essere bevuto nelle kylix.
In seguito, nelle epigrafi la parola uinu viene abbandonata e utilizzata la versione latina vinum, come si legge del resto sulle bende della Mummia di Zagabria (II sec. a.C.), menzionato più di dieci volte e connesso ai rituali in memoria della defunta.
Sia i corredi che gli affreschi rinvenuti nelle tombe rivelano l’importanza che gli Etruschi attribuivano ai banchetti. Si trattasse di festini o di cerimonie funebri, i Rasena vivevano con gioia intensa i loro pranzi che nelle famiglie più ricche potevano avvenire anche due volte al giorno. In tali occasioni l’’uinu o vinum scorreva probabilmente a fiumi.
Oltre a soddisfare il palato e lo stomaco il vino doveva essere utilizzato proprio fino all’ultima goccia. Infatti per chiudere in bellezza le serate, al termine del symposium si faceva la gara del “cottabo” (kottabos). Si dice che il gioco sia stato inventato in Sicilia e da lì fu trasmesso al mondo etrusco e greco. Sofocle racconta che i Siculi erano più fieri in un successo con gli amici al gioco del cottabo che di un lancio riuscito in una gara di giavellotto.
Banchetto etrusco e gioco del cottabo (Anatolio Scifoni, XIX sec.)
Il cottabo nella sua forma classica consisteva in un attrezzo di bronzo, per lo più un alto candelabro (lyknon) con la base provvista di tre piedi e fornito di una lunga asta alta quasi due metri, con un largo piatto a metà dell’altezza. La sommità dell’asta era completata da una figurina che sosteneva in equilibrio un piatto o disco (plastinx) più piccolo del precedente.
I contendenti dovevano lanciare un flotto di vino con una coppa (kylix) verso il disco posto in alto, in bilico, cercando di farlo cadere e rimanere in quello sottostante a metà dell’asta. Le regole prevedevano che il movimento della mano venisse eseguito di scatto e infilando il dito indice in uno dei manici con la base della tazza poggiata sulla parte esterna del polso.
Nei simposi più sfarzosi, la posta in palio consisteva in oggetti preziosi, denaro o una giovanissima etéra.
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