La dea Orsa
Racconto a episodi di Raymond Polinelli
Capitolo Primo. L’ Orsa
Fra le zone più interessanti delle Alpi Centrali, l’area della Rezia rappresenta molto per chi cerca segni di antiche presenze umane. È uno scrigno di storie e leggende ove fiorirono comunità che nulla lasciarono di scritto, ma gli alberi, la rocce, la terra, i fiumi, le erbe sono pregne della loro arcana civiltà che si svela a chi abbia intuito e tenerezza sottili.
Favolosa di storie, tra foreste neolitiche e cime montane, la memoria dei luoghi parla con simboli e toccamenti. Le ninfe continuano a esistere ma la nostra attuale forma di civiltà non le considera più: non può e non vuole percepirle nella loro realtà.
Quest’area montana comprende il territorio dei Grigioni e di Berna, parte della Valtellina e dell’Alto Adige al di là dell’Ortler, e poi coglie anche le antiche terre esterne dei Camunni, parte dell’Austria sino al Danubio.
Remoti popoli varcarono i passi guidati da un animale misterioso nel corso delle primavere sacre, per stanziarsi ove il sole bagna i declivi dei monti e le valli e vallette dando buoni raccolti. Erano viaggi compiuti sotto la protezione del Dio ancestrale, dopo avere preso gli auspici e interrogato la montagna, dimora degli dei indigeni, come fu il Toten Gebirge.
Nell’epoca detta dell’Optimum Climaticum, fra il 5.000 e il 3.300 a.C., i passi erano semplici da percorrere, le valli alpine paradisi. Il tempo si mantenne relativamente clemente sino al medioevo. I popoli chiamavano con nomi sacri i luoghi nuovi ove si stabilivano, ripetendo simboli e cerimonie delle quali erano pratici nella patria originaria. Terra lontana, oltre le Alpi e il Danubio, oltre i Balcani, sino all’Anatolia e poi al Caucaso e oltre ancora; ad esempio, il passo del Bernina fu uno dei preferiti per spostarsi da soli o con la propria gente. Ragion per cui vi furono stanziamenti dall’Engadina alla Valle dell’Adda, alla Lombardia oltre il sacro fiume oggi detto Poschiavino.
Queste genti conoscevano il linguaggio delle montagne e dei boschi, dei laghi e degli animali che vivevano attorno a loro. La Natura vaticinava, le ninfe s’innalzavano dalle acque turbinose, gli spiriti dei boschi apparivano agli uomini esattamente come appariva il dio Pane o Silvano ai Latini o la ninfa Vegoia ai Rasna Etruschi, loro discendenti. Per secoli le popolazioni mantennero un equilibrio illuminato fra loro. Proprio l’eco di ciò, la sua espansione sino alle rive del Podenco-Eridano-Po, e poi oltre ancora, nel Lazio, lasciò ricordo di una favolosa età di Saturno della quale Virgilio Marone parlò con passione.
Era un’epoca di agricoltori pronti a difendersi dalle bande di predoni che varcavano i passi per razziare e appropriarsi, oltre al resto, del rame; ma ciò avveniva nelle ultime epoche, quando il cavallo era d’uso guerresco. Non era facile sfuggire agli avvistamenti dai casolari e dalle torri, le comunità si ponevano sul piede di guerra per stornare le intrusioni. L’ascia era sacra come la spada e il pugnale, simboli di giustizia e tutela del diritto dei “termini”, confini statuiti sotto la protezione della Divinità.
Alta divinità era la Montagna, solerte d’estate a riflettere il calore, innevata e provvida d’inverno a tenere in sé anime e semi di tutte le cose visibili e invisibili, capace di mandare messaggi, poiché andava in cielo con la sua punta elevata. Dal cielo comunicava con gli uomini, dalla terra emanava vaticini ed era un tutt’uno di terra e cielo. Essa era viva come le creature della natura ove le popolazioni stavano immerse. Poi la coltre della dimenticanza calò ovunque. Ma una coltre è pur sempre solo una coltre, e chi può dire che ciò che cela non sia capace di manifestarsi ancora?
Questa storia inizia nell’area alpina del Bernina, nei Grigioni, quando, una tarda sera, un suv saliva i tornanti che portano oltre il passo, sino nell’Engadina, la zona di St. Moritz.
Alla guida dell’automezzo c’era il dottor Aristide Caponi, quarantenne bergamasco e industriale, un tipo robusto e occhialuto che sapeva fare bene i suoi affari e la cui grande passione era la caccia. Ma non si trattava della caccia comune, perché questa a lui non piaceva. Preferiva la caccia di frodo, il bracconaggio senza regole, con il brivido del sotterfugio e della spietata uccisione.
Così “si sfogava”, come diceva agli amici fra un aperitivo e l’altro, perché quando hai dentro la rabbia e la tensione, cosa c’è di meglio del sangue e di una bella mattanza? Si trovavano spesso, lui e i suoi pari, al bar di un paese a due passi da Bergamo, ove fra eleganti tavolini e arredi firmati da un noto architetto locale, passavano ore intere la domenica e le sere a parlare di caccia e di donne, ma soprattutto di caccia e di armi d’ogni tipo. Si sentiva la sua voce stentorea sovrastare quelle degli altri, imponendo la propria competenza circa calibri, carabine e doppiette o anche rivoltelle e pistole.
Naturalmente voleva avere sempre ragione lui, col peso non tanto della sua bravura predatoria, ma con quello del gran rispetto che riteneva di meritare in base al portafoglio gonfio e al successo della sua industria. C’era chi malignava alle sue spalle dichiarando che aveva certe aderenze poco legali tali da garantirsi forniture perenni e guadagni conseguenti, ma il peso del suo portafoglio rimaneva, e su questo pochi discutevano e mai dicevano in faccia al Caponi cosa pensassero di lui sia come persona che come “industriale di successo”.
Una volta, dopo aver ucciso legalmente un cervo sulle Orobie, l’aveva posto ben legato sul cofano del suo gippone e per tutta la serata chi fosse passato davanti al bar del centro poteva contemplare il cadavere della bestia ancora sanguinante esibito quale trofeo delle capacità venatorie di Aristide Caponi.
Quella sera aveva fretta, poiché doveva giungere a Pontresina vicino a St. Moritz, ove si sarebbe trovato con certi suoi amici bracconieri e la sua amante. Tutti insieme per una robusta mangiata e poi a nanna, per partire la mattina dopo alla volta di una certa qual zona ove avrebbero fatto il diavolo a quattro sparando sino a notte.
Da esperto bracconiere, aveva fatto ricavare un vano segreto nell’auto quale contenitore per la sua arma, così da passare le dogane senza essere scoperto. Ora aveva già percorso un certo tratto di strada e si era fermato nascosto fra le piante per trar fuori e montare l’arnese, ben oliato e pronto, rimirandolo e ricoprendolo poi con un plaid colorato. “Ometto mio,” aveva detto alla sua arma, “domani canterai come un canarino e io ti voglio usare per bene”.
Intanto si guardava attorno per non incappare in qualche cicalone di passaggio che magari avrebbe intuito troppo. Ma del resto era ben chiuso in auto, da fuori non si sarebbe capito molto, e poi lui indossava un semplice giaccone di velluto e aveva un’aria rispettabile. Che c’era da temere?
Nell’indefinito circostante di vallate e boschi, ora aveva udito una sorta di rumoreggiare, forse un temporale che si appressava. A dire la verità era stato un suono più simile al ruglio di un orso, ma era troppo lontano, forse aveva travisato. Però quell’appercezione sonora lo aveva quasi allarmato, come se contro di lui avesse potuto pararsi un avversario ostile e fortissimo, incurante anche della sua stessa arma. Infine non vi fece più caso e col gippone aveva ripreso ad abbordare i tornanti sopra i precipizi rasentando boschi che mostravano vasti massi silenti e luccicanti a tratti nel grigio abbrumato dai muschi, spogliati dalla luce dei fari.
Aristide Caponi non era uno che amasse perder tempo e men che meno abbandonarsi a considerazioni bucoliche e tutta la natura intorno lo lasciava indifferente. Essendo il tempo denaro, non lo buttava via neppure quando era in vacanza. Piuttosto approfittò della strada deserta per mettere alla prova il motore e divorare i tornanti.
“Pota! Voglio vedere se non riesco ad arrivare in tempo!” mormorò fra sé, intento alla guida. La sera era entrata ormai nella notte, la luce dei fari continuava ad accarezzare corpi apparentemente statici di altri alberi che si aggruppavano in lunga massa nera salendo i crinali.
“Cos’è quella roba là?” esclamò a voce alta, a un certo punto. Gli era parso di vedere, in alto, più su, proprio al tornante che stava per raggiungere prima del passo, la sagoma di qualcosa di grande, simile a un cavallo. Eppure non era un cavallo ma un cervo, sì che lo era, e più si avvicinava, più quello si stagliava nella notte sullo sfondo di una luce tutta sua particolare. Il cuore gli fece un tuffo, l’emozione lo prese sino a farlo quasi lacrimare. “E’un cervo! un cervo!” continuava a dire. Fermò il gippone di là dalla strada alla sua destra e poco lontano dall’apparizione. L’animale non si era mosso neppure quando i fari lo avevano preso per un attimo. I pensieri affollavano la testa del bracconiere sino a confonderlo. Un animale così grande e maestoso non l’aveva proprio mai visto in vita sua.
Quando era stato illuminato dai fari, gli occhi del cervo brillavano come se incorporassero qualcosa della luce delle tante stelle di quella limpida notte sul Bernina. Sentiva che lo sguardo dell’animale lo puntava calmo e imperturbabile. Ne aveva anche visto il palco delle corna stagliarsi nel cielo come rami di quercia, vasti e diffusi a dilatarsi all’infinito. Là ove in alto si dividevano, appariva una profondità aperta ove troneggiava il pinnacolo innevato di una cima montana che dominava sul bosco alle spalle del cervo. Era una delle antiche cime che da millenni guardavano dal cielo dell’Engadina, perenni e bianche scale che andavano dentro l’etere.
Il subitaneo sgomento ed entusiasmo che aveva preso Aristide Caponi alla vista di un così superbo esemplare che lo guardava come a sfidarlo, lasciò il posto alla ferocia del bracconiere avido di preda. Afferrò con una mano la carabina continuando a fissare la figura del grande cervo.
Fosse o non fosse stato un caso, quella notte la luna piena passava radente la foresta proprio dietro al cervo e così venne ad illuminare plasticamente il suo gran palco ramificato mentre l’animale scartava leggermente sempre guardando verso Caponi. Allora i cornei rami poderosi diedero al bracconiere l’immediata impressione che andassero nella luna stessa, tanto erano diffusi e stregati o surreali.
Continua
La setta di Caino