Intervista a Vito De meo. L’amore per la ricerca, gli orizzonti della storiografia

a cura di Myriam Venezia

Vito De Meo, l’autore che intervistiamo questo mese, non lo si può racchiudere in una sola definizione, ha una personalità eclettica, mille interessi e storie interessanti da raccontare.
Pugliese d’origine ma toscano per adozione, ha fatto della divulgazione storica una sorta di missione; i suoi contributi, saggi e ricerche hanno infatti una grande componente di ricerca, questo rende il tutto interessante e stimolante non solo per gli addetti ai lavori.
Dalle parole di Vito emerge inoltre l’amore e la passione che animano il suo lavoro e le sue ricerche, la riconoscenza per una terra adottiva che ha saputo accoglierlo e che gli ricorda così tanto casa. Amore, dedizione e  passione per il territorio, per la ricerca storica e la conoscenza, che trovano la massima espressione nei suoi saggi.

Ho letto con piacere ed interesse i tuoi contributi e i tuoi saggi. È emersa una personalità poliedrica, si spazia dalla storia, all’archivistica fino all’antropologia. In merito a ciò volevo chiederti la tua personale visione della storia. 
Sì, ho vari interessi, forse troppi. Dopo la laurea in lettere ho conseguito un master in studi geografici e una magistrale in filologia romanza approfondendo soprattutto la storia medievale e l’archivistica (attualmente sto conseguendo una nuova magistrale in beni archivistici e biblioteconomici). La ricerca storica rappresenta il mio principale ambito operativo. Sulla Storia in genere potremmo discuterne per giorni, dalla sua funzione prettamente ricostruttiva di singole vicende fino alla sua eventuale declinazione teleologica, ivi compreso il ruolo dell’uomo all’interno della realizzazione della verità e del progresso collettivo ma, molto semplicemente, per me la Storia rappresenta il modo più intenso per riscoprire un passato che è vivo, onnipresente intorno a noi ma che rischia di essere celato dalla superficialità imperante tanto cara alla frenesia del nostro tempo.
Spesso si sente parlare dell’inutilità della storia – intesa come conoscenza del passato e comprensione contestualizzata degli eventi – ma in realtà lo storico è colui che sa, non colui che sa a memoria singole informazioni ma che mediante la conoscenza di ciò che è stato, come e perché, sa interpretare la realtà. Anche quella odierna, di tutti i giorni. Per questo la storia non riguarda chissà quale polveroso meandro della conoscenza ma è conoscenza della vita, abilità pratica che permette a noi contemporanei di vivere il presente con maggiore consapevolezza, tanto da non renderci cittadini passivi che subiscono i vari processi sociali tipici di qualsiasi comunità. Il vecchio adagio “sapere è potere” ha un suo fondamento, seppur variamente rivisitato nei secoli. Con il sapere si può vivere meglio, in ogni dimensione sociale.

Molte tue pubblicazioni riguardano la storia e gli aspetti di una zona ben precisa della Toscana: Il Chianti. Cosa ti lega a questa zona e cosa ti affascina così tanto?
Prima del 2008, anno in cui conobbi mia moglie che è originaria di Castellina, io non sapevo nemmeno cosa fosse il Chianti. Ancor meno il Chianti Classico o, comunque, tutte le varie declinazioni economiche presenti in questo territorio. Ci sono due aspetti fondamentali che hanno permesso di legarmi anima e corpo al territorio chiantigiano. Il primo è che per me rappresenta la terra dell’amore dove ho trovato Nicole, mia moglie. Per me è la fonte della mia energia, la mia vera casa. Una donna che amo profondamente, chiantigiana fin dal XIV secolo (ne ho le prove!), capace di far maturare i miei pregi e di tenere a bada i miei difetti. Ci completiamo a vicenda e ogni giorno è un giorno di pace, di amore totale, di crescita personale. Il secondo aspetto è che il Chianti mi ricorda tantissimo il mio contesto di origine (la Puglia rurale), solo un po’ più selvaggio e con quel pizzico di mistero che non guasta mai. Sono sempre stato affascinato dalle tradizioni, dai racconti, dai contesti rurali, dai tanti luoghi antropici oggi abbandonati ma un tempo forieri di vita e passioni. E il Chianti, quello vero, non edulcorato dai percorsi eccessivamente turistici e commerciali, è uno vero scrigno di testimonianze culturali tutte da riscoprire, se non proprio da svelare, come rappresentano i tanti siti dal potenziale archeologico che aspettano solo di essere indagati. Per non parlare delle centinaia di chiesette, cappelle, oratori, opere d’arte più o meno sconosciute.
Va anche detto però che da tempo ero appassionato di storia, arte e archeologia e già in Puglia ho avuto modo di collaborare con varie realtà culturali, anche museali, oltre ad essermi formato fin dall’età scolare nelle “botteghe polverose ma vivissime” dell’eruditismo locale.

Vito De Meo

Ho letto con piacere e interesse anche il contributo nella pubblicazione “L’Annunciazione di Sebastiano Tani di Castellina in Chianti. Il culto mariano tra Firenze e Siena”. Vorrei saperne di più in merito al criterio di ricerca che hai usato.
Questo libro nasce su spinta di una mia cara collega, la prof.ssa Giovanna M. Carli, valente storica dell’arte, che da anni si occupa di storia della Toscana e di eventi culturali. In occasione del bando regionale sul Capodanno Toscano abbiamo individuato un aspetto della storia locale pertinente a tale argomento, concentrandoci su questa tela meravigliosa presente nella chiesa del SS. Salvatore di Castellina in Chianti. Anche in questo caso ci siamo trovati davanti a un’opera molto ben fatta, di grandi dimensioni, ben tenuta, ma di fatto sconosciuta in termini storico-artistici. Il criterio utilizzato per la pubblicazione è duplice. Una parte del libro riguarda soprattutto l’inquadramento stilistico, critico dell’opera nel contesto regionale e, quindi, all’interno dell’ampio filone della raffigurazione artistica della SS. Annunziata, che vede il suo prototipo per eccellenza nel celebre affresco fiorentino. A ciò si è affiancata la ricerca squisitamente storica circa la genesi dell’Annunciazione di Castellina e del suo artista. Ne è nata una rocambolesca ricostruzione archivistica, con pubblicazione di molte fonti inedite che hanno permesso di delineare persino il profilo biografico di un artista finora sconosciuto: Sebastiano Tani. Non un semplice artista ma addirittura un podestà-artista, che dipingeva opere nei vari luoghi in cui era chiamato a svolgere il delicato ruolo di amministratore locale per conto di Firenze. Abbiamo rintracciato e messo in relazione molte opere del Tani, dislocata tra il Chianti, Poggibonsi, Firenze fino a Cascina.

In merito al libro “Il Chianti di Michelangelo“, cosa ti ha spinto a scrivere e fare ricerca sull’argomento?
La ricerca si deve all’impulso del caro amico Massimo Bucciarelli e della sua famiglia, proprietari dell’antico podere Casanova sito in loc. La Piazza a Castellina. Tutto nacque a seguito della notizia, apparsa su molti organi di stampa nazionali il 21 febbraio 2018, relativa alla vendita della “Casa di Michelangelo”. Parliamo dell’antico podere denominato “La Torre”, effettivamente posto in vendita fin dal 2015. La qual cosa è verissima. Tuttavia, da studioso e amatore di questo territorio, sentii l’esigenza di abbozzare un articolo dove spiegare, almeno a grandi linee, quante e quali fossero le singole unità poderali acquistate dal divino Michelangelo nel 1549. A onor del vero, sempre sostenuto da un nutrito apparato documentale, scrissi un primo articolo pubblicato online.
Da questo momento, Massimo Bucciarelli volle incontrarmi e con profonda sensibilità sostenne interamente la lunga e complessa indagine storica nonché la relativa pubblicazione, realizzata da Press & Archeos, i cui risultati adesso sono sotto gli occhi di tutti e, logicamente, ci si auspica che possano concorrere a una più efficace e diversificata valorizzazione territoriale. Ringrazio, dunque, i Bucciarelli per aver avuto la lungimiranza di sostenere un simile lavoro.
Il turismo, pilastro fondante dell’economia chiantigiana, si lega a doppio filo con la cultura e una scarsa consapevolezza del nostro passato non può che riflettersi nell’attività quotidiana di ognuno. In un mondo globalizzato, con viaggiatori sempre più esigenti e attenti a ogni sfumatura della nostra storia, il tessuto produttivo ha il dovere di trasmettere insieme al prodotto eno-gastronomico che intende proporre anche il grande valore aggiunto proveniente dal nostro patrimonio culturale, poiché manifestazione di civiltà. E di farlo con serietà. Un turismo di qualità è possibile solo attraverso servizi di qualità, i flussi vanno educati e i risultati, a medio-lungo termine, giungeranno a beneficio di tutta la comunità.


È stato stimolante la ricerca su questo argomento oppure ci sono state difficoltà? se sì, quali? Immagino nell’ambito della ricerca archivistica o nell’ambito paleografico.
Sì, è stato molto stimolante. La ricerca storica anche solo di una singola unità poderale lo è sempre perché emergono sistematicamente così tante informazioni, quasi tutte inedite, che non può che destare meraviglia e interesse. Lo vedo continuamente negli occhi dei proprietari quando, a seguito di una ricerca, leggono finalmente una indagine storica strutturata (che, tra l’altro, può essere multidisciplinare passando, ad esempio, dall’architettura degli immobili colonici all’evoluzione del paesaggio agrario, dalla biodiversità dei luoghi fino alla raccolta delle fonti orali). Dopo guardano la proprietà e, dunque, sé stessi, con uno sguardo mutato, soddisfatto, più consapevole, arricchito. Nel caso specifico il momento più emozionante è stato consultare l’archivio storico di casa Buonarroti, dove ho trovato numerosi riscontri delle attività rurali durante la conduzione dei primi Buonarroti, con tanto di elenco dei viveri prodotti – e, ovviamente, del vino – venduti a terzi o incamerati a casa di Michelangelo. L’atto notarile di acquisto riporta Michelangelo con la significativa dizione di Egregium Sculptorem.
Durante queste indagini ci sono sempre delle difficoltà, non solo in termini meramente paleografici ma proprio archivistici, in realtà spesso mancano di adeguati strumenti di ricerca, con inventari parziali, annotazioni esitanti e così via. L’abilità del ricercatore, oltre che nella metodologia scientifica (condizione minima essenziale), sta nell’esperienza e nella conoscenza approfondita dei luoghi, dei toponimi, dei patronimici e dei principali gruppi famigliari e, ovviamente, delle principali fonti documentali a cui attingere. Non è semplice, ci vogliono anni di esperienza sul campo. Anche per questo accade, ad esempio, di leggere ricerche storiche non sempre puntuali o che peccano un po’ di superficialità, spesso avare di nuove informazioni o con pochissimi dati inediti, perché magari scritte da remoto da professionisti che, per quanto valenti, non dispongono di una conoscenza davvero radicata del territorio oggetto d’indagine e delle relative fonti documentali. E molte indagini, per quanto ammiccanti, rischiano di rivelarsi scontate, senza apportare nuovi contributi in termini di conoscenza (quando va bene, altrimenti riportano persino refusi o errori di una certa entità).

Ritornando alla prima domanda, negli ultimi tempi faccio sempre più fatica a trovare libri/saggi e pubblicazioni che non siano di nicchia riguardanti temi come la storia, la ricerca e le discipline ausiliarie alla storia. Cosa pensi di questa tendenza di perdita di appeal? ritieni che la conoscenza storica/umanistica debba essere “usata” meglio?
Non credo che ci sia una perdita di “appeal” verso la ricerca storica locale, tant’è che il numero delle pubblicazioni non sono meno numerose che in passato, anzi. C’è solo più confusione essendoci oggi molti più prodotti editoriali, di infiniti generi e tipologie, unitamente a una società completamente trasformata in termini culturali e ludici. Ci sono più distrazioni, molti più interessi rispetto a prima (basti pensare a internet e ai social). Certamente le ricerche locali, se ben fatte, sono molto approfondite, quindi specialistiche, e per loro stessa natura non possono che rivolgersi a un pubblico ben circoscritto, solitamente intravedibile nella platea degli addetti ai lavori e, ovviamente, nella popolazione di riferimento al territorio trattato. Ma hanno quasi sempre un discreto successo di pubblico (o, quanto meno, riescono a farsi finanziare dai privati o dagli enti locali, forse anche più delle pubblicazioni accademiche vere e proprie). Detto questo, di certo si può “usare” meglio la ricerca storica senza ridursi al classico eruditismo (che, comunque, male non fa!) ma anche su questo aspetto ci sono in atto, da decenni, tante iniziative valide, come la didattica della storia o la public history; del resto non è un segreto che la conoscenza storica abbia un’utilità capace di soddisfare molti ambiti della vita umana ben oltre gli scopi puramente settoriali o accademici. Certamente va potenziata l’esperienza diretta, il coinvolgimento del pubblico con il passato, magari partendo anche da un effettivo coinvolgimento delle comunità nei classici centri culturali decisionali (come musei cittadini, archivi, pinacoteche, ecc) stimolando il dibattito e, forse, recependo dal basso quelli che possono essere gli aspetti più “sentiti” da approfondire con ricerche e progetti culturali mirati. Attenzione però, questo non vuol dire sostituire i professionisti con i volontari o con la buona predisposizione dell’appassionato di turno, ma semplicemente affiancare queste energie ai professionisti, in modo da creare reali sinergie capaci di generare interesse e senso di identità.

a cura di
Myriam Venezia