Le enigmatiche steli della Lunigiana

di Enio Pecchioni

La “pietra”, che era stata da sempre strumento dell’uomo, quasi un oggetto di venerazione, nascondeva preziose materie al suo interno delle quali non ci si era resi conto fino ad allora; fu così che dalla scoperta dei metalli che da essa provenivano si sviluppò negli esseri umani un nuovo concetto di ideologia.

Con la ricerca dei metalli si favorì un’intensa esplorazione del territorio, ed una maggiore conoscenza di taluni aspetti della natura, portando gli esseri umani a nuovi orientamenti del pensiero. Di conseguenza cambiò la struttura socio economica dei villaggi; l’agricoltore ricopriva adesso un’importanza minore perché la supremazia passava nelle mani degli artigiani forgiatori dei metalli.

Gli interessi economici erano stravolti, i beni voluttuari crescevano d’importanza divenendo simboli di successo e di posizione sociale, l’esaltazione del prodotto portò al culto e alla elevazione di ciò che l’uomo creava con le proprie mani.

Armi ed altri oggetti di metallo vengono raffigurati nelle incisioni sulla pietra sempre in maggior numero e viene loro riconosciuto un potere soprannaturale. Pugnali, asce, giavellotti, pettorali, cinturoni, pendagli divengono simboli di potenza e di prestigio, attributi di “entità divine”, nelle statue-stele, nelle statue-menhir dell’Età del Rame e del Bronzo.

L’uomo da creatore diviene loro suddito, dipendente da queste “cose” che lui stesso ha creato. Così si forma un nuovo tipo di società che si riflette nell’arte rupestre: l’avvento di una nuova religiosità che va dall’Asia all’Atlantico conquistando le popolazioni sparse per tutta l’Europa.

In Lunigiana, abbiamo tangibile tale nuovo concetto dell’uomo preistorico, grazie alle numerose stele ritrovate.Le enigmatiche statue-stele-menhir (un centinaio) sono state rinvenute nel bacino della Magra e nei suoi immediati dintorni, isolate o in gruppi, dal XIX secolo ad oggi.

Queste stele antropomorfe semplici e primitive, realizzate in pietra arenaria, rappresentano figure maschili e femminili (anche asessuate o bisessuate). Le dimensioni oscillano in altezza tra i cinquanta centimetri e il metro e mezzo o poco più e furono eseguite da blocchi di partenza di macigno del peso tra i cento e i trecento chilogrammi.

Molte sono le ipotesi circa l’origine ed il significato di tali singolari manifestazioni dell’uomo primitivo. Di queste stele sono stati distinti tre gruppi, ma si potrebbe dire anche quattro, come vedremo più avanti. I primi due appartengono a un’età pienamente preistorica, III e II millennio a.C., mentre il terzo è di età storica, l’Età del Ferro, (per la Liguria VII – VI secolo a.C.); la cronologia, però, è comunque discussa e incerta e quindi conviene presentare questi monumenti come a sé stanti, anche se i primi due sono fondamentalmente simili.

Il primo, gruppo “A” (III/II millennio a.c.) si caratterizza per l’estrema rozzezza ed elementarità. La stele ha una forma rettangolare o trapezoidale (forse venivano scelte pietre già adatte in natura) corrispondente al corpo della figura umana, la cui testa è inclusa nel corpo stesso, da cui la distingue solo la linea clavicolare. Il viso è indicato da un’incisione a “U”, la linea clavicolare continua nelle bracciache si piegano leggermente all’altezza dei gomiti con le mani convergenti sull’area pubica. Le stele maschili recano all’altezza delle mani un pugnale a lama triangolare col pomo ovoidale portato sul davanti, mentre quelle femminili hanno i seni rappresentati da due dischetti (fig. 1, 2).

Il secondo gruppo, “B” (Età del Bronzo, II millennio) presenta caratteri più umanizzati; troviamo la testa staccata dal corpo mediante lo slancio dell’incurvatura del collo, il volto inciso dentro un cerchio ovale con gli occhi caratterizzati mediante due fori o rilievi; le stele maschili hanno spesso nelle mani oltre il pugnale costolato a lama triangolare, l’ascia piatta “a ginocchio” (simile a quella ritrovata accanto alla mummia del Similaun); quelle femminili presentano i seni più realistici e sovente portano delle collane o delle goliere, non vacui simboli della vanità femminile, bensì segni di un rango e di un rilievo sociale di grande rispetto. Il distacco della testa dal tronco mediante il collo rimanda alla forma del pugnale che hanno scolpito sul davanti. Questo tipo di testa dall’espansione laterale a “cappello da carabiniere” raffigurerebbe il pomo semilunato del pugnale, e il collo rappresenterebbe il manico dell’arma, che fu fonte di enorme prestigio in chi la portava (1) (fig. 3, 4).


Il terzo gruppo, “C” (VII – VI sec.a.C.) diventa più “umano”. Dall’arte astratta si passa a quella naturalistica (fig. 5, 6, 12). I corpi non sono appiattiti ma a tutto tondo, fino a diventare vere e proprie statue anziché semplici stele figurate. Le statue maschili recano più armi, infatti oltre a quelle tradizionali si trovano i due giavellotti celtici, i “Bina Gaesa” di Virgilio, che costituivano parte dell’armamento. Finalmente appaiono le gambe e anche gli attributi maschili. Su alcuni esemplari compaiono iscrizioni etrusche con i caratteri dell’etrusco padano. Ciò dimostra come il popolo che le scolpì, che dalla tarda preistoria si stava affacciando alla storia, non fosse del tutto illetterato (2).


Alcune steli di questo gruppo sono reimpieghi dei due tipi precedenti e potrebbero avere avuto una funzione funeraria per raffronti con esemplari più o meno coevi prodotti in area italica, come il Guerriero di Capestrano , o in area centro-europea come la statua trovata a Ditzingen-Hirschlanden, alla periferia di Stoccarda (fig. 8).

Ma quale era il significato di questa grande massa di “pietre” ritrovate tutte così concentrate nella Lunigiana? Sono state elaborate diverse ipotesi. Alcuni vogliono che essere fossero raffigurazioni di divinità, immagini di culto, facendo riferimento comparativo alle figure eneolitiche femminili ritrovate in Europa e nel bacino del Mediterraneo. Tali raffigurazioni, che recano vistosi attributi sessuali, sarebbero riconducibili al culto della Grande-Madre, tipica della vasta area di cultura eneolitica (3). Ma per giustificare una religione della Grande-Madre qui nella Valle della Magra, dovremmo constatare una significativa prevalenza di figure antropomorfe di donne, cosa che non trova riscontro, visto il numero dei reperti femminili rispetto a quelli maschili. Inoltre le stele femminili della Lunigiana che presentano mammelle più o meno rilevate non recano alcun segno che possa essere riconosciuto come indicazione dei genitali, rappresentazione della vulva che è una costante nei culti della Grande-Madre.

Le statue-stele potrebbero essere semplicemente monumenti funerari che sorgevano sulle tombe o nelle loro immediate vicinanze. Purtroppo la grande maggioranza delle stele è stata scoperta in luoghi diversi da quelli originari, e fino ad ora al numero ingente di ritrovamenti non fa riscontro un’altrettanta ricca documentazione archeologica: questi monumenti, infatti, non sono stati mai associati a precisi contesti di abitato o di necropoli; nei casi dei ritrovamenti nel luogo primitivo di collocazione non è stata identificata nessuna sepoltura in associazione alle stele.

Ma allora le statue-stele perché sono state fatte? E da chi?

Dal III° al I° millennio a.C. gli uomini che abitavano la Lunigiana rientravano nella vasta zona della civiltà camito-ibero-ligure; erano i Liguri della protostoria, i Ligyes del mondo greco che secondo Plutarco (50-120 d.C.) chiamavano se stessi Ambroni (4).

I Liguri abitavano uno spazio geografico vastissimo rispetto alla Liguria attuale, ossia quasi dalla foce dell’Ebro in Spagna a quella dell’Arno in Toscana con il Mugello il Casentino, persino in Chianti.

Essi svilupparono maggiormente l’allevamento pastorizio, sia in forma stanziale, sia con spostamenti stagionali dai fondovalle alle alture e viceversa. Per procurarsi nuovi pascoli incendiavano sulle montagne i boschi di abeti e faggi, impoverendo alcune specie vegetali e provocando in diversi casi l’erosione dei suoli. Gli animali preferiti erano le pecore e le capre, allevate per i loro prodotti, latte, formaggio e lana e non per la carne che invece veniva fornita dalla pratica della caccia: cervi e caprioli. Con l’Età del Bronzo (II° mill. a.C.) aumentò l’allevamento dei bovini e dei suini. I bovini venivano utilizzati anche per i lavori agricoli.

Gli uomini che hanno diffuso la cultura megalitica e che ci hanno lasciato le stele, per quanto utilizzassero come strumenti taglienti lame di selce o di diaspro, erano anche cercatori di metallo. Ciò è dimostrato dai ritrovamenti degli arnesi lasciati nelle gallerie scavate nei giacimenti di rame.

Il costume funerario era quello collettivo in grotte, in crepacci naturali, sotto singoli mucchi di pietre o in dolmen con dromos (Francia) per inumazione; o incinerazione nella fase dell’Età del Ferro. La loro cultura assai rudimentale si limitava ad oggetti lavorati di uso comune, alle incisioni rupestri e dunque alle stele.

I Liguri furono eminentemente conservatori, tanto che ancora all’epoca dello storico Diodoro Siculo (I° secolo a.C.) andavano vestiti di pelli come durante il paleolitico. Essi prediligevano i luoghi posti in alto rispetto alle valli e facilmente difendibili, qui sorgevano i loro “castellari” (come quello di Zignago, La Spezia), piccole fortezze arroccate sulle cime delle colline (5).

Parlavano dialetti non indoeuropei, di cui rimangono tracce nei toponimi (i suffissi –asco, -osco, -usco), come il “misterico” Amborzasco (Genova), paesino sotto il Monte Maggiorasca, che ci richiama nella prima parte della parola (ambor) il nome Ambroni che, come già detto è quello di alcune popolazioni ligure.

La presenza enorme di stele nella Valle della Magra, boscosa e ricca d’acqua, lungo i sentieri che collegavano i castellari, fa pensare a culti della fertilità, della vegetazione, delle acque (6); culti nei quali le statue-stele rappresenterebbero guardiani divini, o eroi progenitori, oppure defunti che ebbero prestigio come sacerdoti o capi del villaggio e quindi eroicizzati e divinizzati. Pugnali, asce, amuleti o seni enfaticamente ostentati erano la prova, il documento della temibile potenza del capo o della sacerdotessa divinizzati.

Le statue-stele, maschili o femminili, potrebbero dunque rappresentare defunti oggetto un “processo di eroicizzazione” riconosciuto a personaggi influenti del villaggio, amati e rispettati. Una proiezione AD INFEROS determinante “duplicati” che continuano dall’aldilà ad ispirare, sostenere, proteggere, tutelare le azioni del gruppo al quale appartenevano.

Nella preistoria ci furono stretti rapporti fra culto degli alberi e culto delle “grandi pietre”, una interrelazione fra alberi e menhir, fra alberi veri e “pietre ritte” infisse verticalmente nel terreno. Tra albero e statua-stele acquista un significato non casuale la presenza della maggior parte delle stele in località boscose, come per esempio le vallate Lunigiane. In queste valli tra l’altro si trova la Selva di Filetto, grande bosco di castagni, oggi alquanto estesa, ma enormemente più ampia nel Medioevo (risulta infatti che alla fine del XIII secolo questa SILVA occupava tutta la pianura fra il fosso Bagnone e il Monia, e qui sono state ritrovate diverse stele).

Questa sopravvivenza che legava il bosco e le pietre dalle forme umane è venuta alla luce in un’altra foresta a Pontevecchio di Cecina (MS), dove una fila di statue-stele è stata ritrovata ritta e indisturbata nel bosco; una sorta di luogo “proibito”, il bosco delle “statue senza bocca”, dotate di questa caratteristica per poter trattenere l’anima.

In queste selve della Lunigiana i capi indigeni sarebbero stati rigenerati da tronchi d’albero per significare la loro forza spirituale: pietre di “geni” che, come i tronchi della mitologia greca, generavano uomini.

Il territorio boscoso in cui i primordiali abitanti della Lunigiana vivevano e si procuravano il cibo era di primaria importanza, specialmente in situazioni climatiche sfavorevoli. In relazione a questo aspetto, il culto degli avi poteva legittimare il “diritto alle terre” rispetto ai gruppi vicini. Le stele-menhir avrebbero avuto, quindi, anche la funzione di “marcatori territoriali” di “lapides finales” come i “tular spural”, i cippi confinari sacri agli Etruschi.

Le stele degli avi, come sentinelle di una Grande Dea Madre, estendevano il loro dominio sul sottosuolo infero e la superficie terrestre, come sorta di ombelichi del territorio. Tali stele avevano la funzione di asse lungo il quale scorrevano le forze sacre del sottosuolo e quelle provenienti dalla volta celeste e, come vuole qualche studioso, per incontrarsi in una magica congiunzione degli opposti; mentre altri affermano che le sculture avrebbero anche una sottile influenza psicologica (o parapsicologica).

E se queste enigmatiche stele fossero invece legate al dio Penn?

Penn o Pennin fu un’antica divinità preistorica adorata in Europa e in vari luoghi d’Italia.

Letteralmente “penn” significa “cima”, “sommità”. Alcuni storici (Marco Porcio Catone, III°-II° secolo a.C., Origines) ne parlano come di una misteriosa divinità femminile, la dea Pennina. Successivamente il culto femminile fu dimenticato a causa dei romani che in una operazione di sincretismo lo sostituirono con quello di Giove, denominato appunto Pennino.

A ricordo di questa antichissima adorazione troviamo ancora i toponimi come Alpi Pennine, gli Appennini, il Monte Pennino, il Monte Penna, il Torrente Penna.

Penn era rappresentato in rocce sporgenti o mucchi di pietre, sui sentieri che si inerpicavano verso le cime dei monti. Tracce del dio Penn le troviamo a Finale Ligure dove è presente una strana testa rupestre che rappresenta la divinità celto-ligure, per alcuni proprio l’immagine di Penn.

Nella Selva di Filetto, nella Valle della Magra, fino a pochi decenni orsono si svolgevano delle processioni propiziatorie che avevano come destinazione un tumulo di pietre chiamato in dialetto lunigiano “Maseron de’ Morti” (7).

E cosa dire dell’enigmatica colossale pietra (ritoccata dall’uomo preistorico), su uno sperone roccioso nel Sud-Italia, nelle cosiddette Dolomiti Lucane, sullo Stretto di Albano vicino a Potenza? È possibile si tratti di un’altra immagine di Penn.

L’immagine femminile di Penn come Grande-Madre (nelle stele femminili) o del capo tribù come sacerdote di Penn (in quelle maschili) divinizzato post-mortem, vegliava dai monti, dai fiumi, dai boschi (luoghi sacri alla divinità), sul villaggio, sui terrazzamenti agricoli, sui pascoli e lungo i tratturi percorsi dai pastori nei periodi di transumanza.

C’è poi un’altra possibilità.

Bisogna ricordare anche che in alcuni popoli italici esisteva il culto del “priapos”, di origine celtica, che potrebbe essere collegabile alle stele della Lunigiana. Il culto del priapos, la potenza sessuale maschile, corrispondeva ad un rito di fertilità legato alla divinità solare che, metaforicamente, con i suoi raggi trasformati in stele-menhir, rendeva fertile la Madre Terra,

In un’epigrafe conservata a Luni, nella chiesa di Soriano (Surianum), ascrivibile al 753 d.C. (periodo longobardo), si commemora il Vescovo Leondgar che, tra le sue benemerenze compì anche il dovere di “spezzare gli idoli”. Non si sa se il suo fervore di neofita sia stato diretto contro le statue-stele, ritrovate mancanti di una parte nel sottosuolo della stessa chiesa o più verosimilmente contro le divinità pagane che i coloni romani avevano importato nella Lunigiana diversi secoli prima e ancora adorate in loco.

Nel mistero di queste vallate, come avevamo accennato all’inizio, c’è un altro capitolo da considerare perché esiste un IV° gruppo (“D”) di sculture, con un’iconografia che forse proviene direttamente dalle più antiche.

Nella chiesina del paesino di Buto (Varese Ligure), nel verde più impervio della Val di Vara, in provincia di La Spezia, si trova o si trovava un bassorilievo in arenaria ben conservato che rappresenta un “omino” ritto in piedi con la mano destra sul petto (fig. 9). In un altro paesino della Val di Vara, che si chiama Chiusola (SP), esiste un’altra versione della figura dell’omino, molto simile a quella di Buto, con la stessa veste a cappa che si conclude all’altezza delle cosce, ma dalla quale fuoriesce, in bella evidenza, la figura del fallo pendente (fig. 10).

Un terzo omino, che fa corollario ai precedenti, lo troviamo nella pieve cimiteriale di Sorano (la stessa della lapide longobarda), oggi Filattiera. Quest’ultimo personaggio (fig. 11) differisce dagli altri due soprattutto per la sua completa nudità che comporta una più esplicita rappresentazione dei genitali, mentre concorda con essi per la dimensione, per la rozza e impacciata semplicità della raffigurazione e per l’atteggiamento -specialmente quello di Chiusola- del quale ripete il gesto della mano destra levata all’altezza delle spalle (anche se qui non è riconoscibile la raffigurazione della spada).

Scorrendo le fattezze di tutte le stele della regione per individuare una similitudine, prendiamo la più tipica per porla a confronto con il nostro terzetto: la stele Bocconi dell’Età del Ferro (fig. 6). Esistono delle corrispondenze nelle armi, nella sessualizzazione, nella barba, nelle orecchie ad ansa e nella doppia cintura (ci sono le prove archeologiche del suo uso nelle due epoche storiche) che per una ingenuità dell’artista si trova sulle cosce in una posizione da scambiarla per l’orlo inferiore della veste.


Tra questi tre bassorilievi, la stele Bocconi e le preistoriche del III°-II° millennio a.C., ci sono delle analogie che ci confermano una tradizione scultorea filtrata attraverso i processi culturali della romanizzazione e della cristianizzazione fino all’alto medioevo e al periodo longobardo-carolingio.

Siamo davvero in presenza di una tradizione proveniente dal mondo preistorico, quattro volte millenaria, che attesta le radici di un’arte popolare di ispirazione religiosa ancora operante tra il VII° e il X° secolo d.C.?

Tutte queste stele sono davvero a misura dell’uomo che le ha create? Di come egli si sentiva e vedeva, o voleva essere? Culto dei defunti eroizzati, totemismo del dio Civetta (8), dea Luna, Madre Terra, il dio Penn, numi tutelari della famiglia, il priapos, quale sarà la giusta spiegazione?

Ma forse dovremmo infine chiederci: nell’elaborare le nostre varie ipotesi non rischiamo forse d’inventare giustificazioni a posteriori di tali strutture, delle quali, parliamone francamente, ignoriamo il valore originario? Quando questi monumenti si definiscono legati alla sfera religiosa, si attiva una vaga formula che nasconde l’imbarazzo di fronte a manifestazioni che non siamo in grado di comprendere.

Le stele della Lunigiana corrispondono ad una lacuna sul passato: immagini di un’antichità abissale, un periodo emozionante del quale, nonostante tutte le ricerche e le speculazioni, non possiamo far altro che sbirciare l’oscurità.

N O T E

  1. Emblematica a questo riguardo la stele di Pontevecchio VIII dove le simbolizzazioni del naso e degli occhi inseriti in un cerchio e quelle delle orecchie evocano l’andamento delle borchie del pomo del pugnale. Anche le annotazioni circolari nel capo delle stele di Filetto V e VII, di Sarzana e di Sorano II, ai lati del volto, richiamano per la loro ubicazione le borchie di bloccaggio delle guance del pugnale in corrispondenza del pomo.
  2. Alcune stele liguri del gruppo “C”, Età del Ferro, sono corredate da iscrizioni etrusche (alfabeto proveniente nel VI° secolo a.C. dalla Etruria Padana, per il segno a croce che indica la lettura “th”). Queste scritte hanno impegnato i glottologi del XIX° e XX° secolo e si pensava a stele etrusche con il nome di una famiglia, di una divinità o soltanto un epitaffio funebre. Oggi con una intelligente interpunzione delle singole parole, trovato il semantema, ci orientiamo su formule onomastiche di possesso al genitivo mono e bimembri, anche se la scritta della stele Filetto II (VEZARUAPUS) è molto vicina alla costruzione etrusca AIZARUVA dal probabile significato: “così fatto”. Una pietra menhir (con scrittura etrusca aggiunta posteriormente) fu trovata a Busca a 16 chilometri da Cuneo, dove erano stanziati i Liguri Vagienni. Dai caratteri utilizzati si capisce però che il tipo di alfabeto non è dell’etrusco padano, preso a prestito dai Liguri, ma bensì dell’etrusco settentrionale volterrano, si da pensare ad una stazione commerciale etrusca vera e propria che si doveva trovare nella zona di Busca, sulla via di comunicazione fra il Piemonte sud-occidentale e le colonie greche di Nizza e Marsiglia.
  3. Il principio femminile fu quello di dea del creato, genitrice universale, madre di tutte le creature, l’energia femminile era la materia creativa di tutte le cose. Il dio maschile stava a fianco della dea ed era rappresentato come un dio ferito, ucciso e risorto. Osiride, Dionisio, Attis, Adone e Orfeo, nel mito sono “fatti a pezzi” e subiscono il sacrificio in onore della dea.
  4. L’iconografia delle statue stele della Lunigiana, nelle sue due prime fasi evolutive, denota legami con ambienti eneolitici che riconducono a Remedello, Spilamberto e alle sfere culturali di Gaudo e Rinaldone delle regioni peninsulari tirreniche. La grande importanza che riveste il pugnale nell’ Età del Rame, come simbolo di prestigio, si riflette anche nella sfera ideologica e nelle manifestazioni di arte ad essa connessa.
  5. Lo stesso Diodoro Siculo ci tramanda che “… sono una gente forte e ardita, che tempra le sue energie affrontando i mari su fragili imbarcazioni, incuranti dei pericoli e delle tempeste”; infatti, un esempio dei loro rapporti commerciali e culturali per via marittima è riconoscibile dalla comune iconografia del “doppio pugnale” presente su alcune stele, sia della Lunigiana che della Sardegna e dell’Andalusia. Oltre al doppio pugnale (fig. 14) ci sono ulteriori accostamenti tecnico-iconografici fra le statue-menhirs della Sardegna (Sarcidano) e le stele della Lunigiana: La stele di Genna Arrele V e le stele Pontevecchio a testa arcuata e spalle abbozzate da brevi riseghe, hanno la stessa geometrica impostazione. Sia nel Sarcidano che in Lunigiana, si ritrova la stessa tecnica di lavorazione e rifinitura a martellina fine e uniforme, che abbassa i piani di fondo per i rilievi figurati sul lato frontale. I grandi pugnali impostati allo stesso modo e realizzati con la stessa tecnica, sono simili, sia nel contorno perimetrale fortemente inciso e falso rilievo per asportazione dei piani laterali al largo manico, sia quando in netto e ben modellato bassorilievo.
  6. Rituali pagani come il culto delle acque si ritrovano in Toscana ancora nel XV° secolo. Dove sorge la chiesa di S. Maria delle Grazie ad Arezzo, in origine c’era un bosco con una fonte detta FONS TECTA abituale ritrovo di idolatri del posto ancora pagani. Nel 1428 San Bernardino venuto a predicare in Arezzo, fece abbattere la fonte e tagliare il bosco e vi fondò una cappelletta. D’altra parte il Paganesimo durò a lungo e non solo in Lunigiana. Nonostante tutti gli Editti di proscrizione, prima di Costantino e poi con Teodosio, il paganesimo in Occidente non fu estirpato: infatti, quando il giovane imperatore Onorio nel 404 d.C. da Ravenna si recò a Roma, potette constatare che i santuari di Giove, della Concordia e di Minerva, erano ancora attivi, gli altari pieni di iscrizioni votive e vi si celebravano sacrifici. Inoltre, alla fine del V° secolo durante il breve regno di Romolo Augustolo, (che decretò la fine dell’Impero Romano d’Occidente) e il regno barbarico di Odoacre, i calendari romani indicavano ancora tutte le feste pagane e i giochi che le celebravano.
  7. Nella necropoli preromana di Genicciola a Podenzana (vicino Aulla) ci sono delle tombe liguri formate da mucchi di pietre costituenti una sorta di tumulo con sopra un segnacolo, un masso più grosso, forse semplificazione delle stele arcaiche e in questo caso con scopo funerario.
  8. La rappresentazione della civetta divinizzata la troviamo in Francia come oggetto di culto nella Grotta Dumas e al Petit Morin nella Marna e anche in rappresentazioni sulla pietra che richiamano le fattezze del I° gruppo della Lunigiana. Ma anche: le teste a forma di mezzaluna del gruppo “B” fanno pensare all’adorazione della Luna; i Romani quando occuparono questo territorio per non inimicarsi troppo gli abitanti “aborigeni” dettero il nome di Luni (che però forse portava già -in similare versione- essendo stato porto degli Etruschi al tempo della loro talassocrazia: Strabone) quando dedussero la loro colonia dedicata a Diana, raffigurata con la Luna.


I CELTI
Documentario introduttivo alla
cultura celtica, e alla sua diffusione
nei territori appenninici

durata: 1h 02′
Mediaframe, 2008
€ 9.90

I popoli celtici si sono distinti per valori forti e radicati, come la grande simbiosi con il mondo della natura, il coraggio nella difesa della propria identità, l’amore per la bellezza e una filosofia ispirata ai cicli cosmici. La riscoperta del mondo celtico ci aiuta forse ad identificare, alla radice, alcune componenti del nostro stesso esser europei.
Anche se forse è impossibile parlare dei Celti come di un unico grande popolo, possiamo introdurre lo spettatore alla vastità della loro cultura, i cui simboli sono stati assorbiti dall’immaginario cavalleresco e, in seguito, dalle filosofie iniziatiche e massoniche.

contenuti:
-Le Origini dei Popoli Celtici
-La cultura: Druidi, Bardi e Guerrieri
-La discesa in Italia e la guerra contro Roma
-Il mistero della Sibilla appenninica

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