Dante Alighieri e il Casentino

di Enio Pecchioni

Nel cuore degli Appennini, il Casentino che già aveva ispirato San Francesco, senz’altro ispirò anche Dante Alighieri.
Qui troviamo ancora, come ai tempi di Dante, il mistero, l’atmosfera d’intenso misticismo dell’ambiente, dove il silenzio regna sovrano con la sola compagnia del vento che soffia tra gli alberi della foresta, il canto degli uccelli, lo squittire degli scoiattoli lo strusciare a passi felpati della volpe.

Casentino, castello di Poppi

Ancora oggi i luoghi sono praticamente uguali a come erano al tempo del soggiorno del Poeta: i dolci declivi, la fertile pianura, i monti ricoperti da fitte foreste di abeti e di faggi, corsi d’acqua limpidissima, come Dante farà dire a Mastro Adamo da Brescia nel canto XXX dell’Inferno (64-67): LI RUSCELLETTI CHE DA’ VERDI COLLI DEL CASENTIN DISCENDON GIUSO IN ARNO E FANNO I LOR CANALI FREDDI E MOLLI SEMPRE MI STANNO INNANZI….Le brume che salgono dal fondo valle dove scorre il FIUMICEL CHE NASCE IN FALTERONA (Purg. XIV, 16), avvolgendo di nebbia sfilacciata i colori autunnali degli alberi; la natura selvaggia e gli orli dentellati di uno strapiombo sembrano ideali per suscitare nel Poeta le descrizioni fosche dell’Inferno.

Il nome imposto al neonato sul fonte battesimale, Durante, cioè “paziente”, “tollerante”, dimenticato poi per l’abbreviativo Dante, non riuscì giusto per la sorte del Poeta data la sua nota irascibilità.
L’antica schiatta degli Alighieri, discese a quanto pare da quella degli Elisei, emigrati romani ai tempi di Carlo Magno, era ormai decaduta, impoverita e senza più importanza.
Nell’elenco delle famiglie illustri di Firenze guelfe e ghibelline, essa non figura. Forse già quando nacque Dante essa non faceva più parte della grande nobiltà cavalleresca, ma di quella piccola, di quel ceto medio che solo più tardi si sarebbe fatto avanti per soppiantare l’antica nobiltà.

Dante Alighieri aveva per il suo tempo, statura media, fisico agile, viso liscio senza pelurie; gli occhi bruno-folgoranti, capigliatura crespa e naso lungo non aquilino. Fu orgoglioso, iracondo, lussurioso e tagliente come lo sono tuttora i fiorentini; a volte generoso, umile, semplice come un bambino e di fronte ai maestri discepolo devotissimo.
Dante fu immemore della sua famiglia, salvo che del suo trisavolo Cacciaguida, nobile crociato.
Le sue giovanili esperienze furono ricchissime: armi, amori, studi, politica.
Lo troviamo come armigero in Casentino nel 1289 nella battaglia di Campaldino. L’esperienza di Campaldino fu il primo e  certamente il maggior fatto d’arme nel quale fu coinvolto il Poeta.

In quella memorabile giornata, Sabato 11 giugno San Barnaba, Dante con le armi del partito Guelfo combatté vigorosamente a cavallo nella prima schiera contro gli Aretini, aiutati dai Ghibellini di Toscana (Inf. XXII, 4-5).
In una epistola scrisse: MI TROVAI NON FANCIULLO NELLE ARMI E DOVE EBBI TEMENZA MOLTA, E NELLA FINE GRANDISSIMA ALLEGREZZA PER LI VARI CASI DI QUELLA BATTAGLIA.

Di tale avvenimento Dante ci ha lasciato descritto nella Divina Commedia il commovente episodio della morte di Buonconte di Montefeltro (Purg. V, da 88). Il tratteggio fatto dal Poeta ispira un sentimento di pietosa e soave malinconia, nel quale par di udire il fragore della battaglia a cui si mescola quello della tempesta, suscitata dal Demonio ghermitore delle anime dei caduti.
L’efficace descrizione dell’uragano che si abbatte nella zona e del torrente Archiano in piena, hanno una tale forza espressiva che soltanto avendolo vissuto si poteva descrivere in tale misura.
Abbandonate le armi Dante si dedicò alla politica e nel momento in cui raggiunse la carica suprema del Priorato arrivò per lui l’inizio della sventura.

Sorvolando i fatti politici che avvennero a Firenze alla fine del XIII secolo, ricordiamo che Dante, come “Bianco”, fu condannato all’esilio col marchio d’infamia dai “Neri”, suoi implacabili avversari; il suo carattere e la sua natura indomita furono poi la causa perduta del non più raggiunto ritorno.
Per sua fortuna,  Dante potette contare sulla sua esperienza di uomo di politica e di diplomazia che a quell’epoca era molto maggiore della sua fama di poeta; così egli errò di corte in corte tanto che la Divina Commedia la scriverà “di rifugio in rifugio mendicando la vita”.

S’unì dapprima ai fuoriusciti (Convegno di San Godendo del 1302) poi, orgoglioso di AVER FATTO PARTE A SE STESSO  si avvicinò sempre più all’idea Ghibellina che in lui derivava dall’aver sempre propugnato il diritto Imperiale su Roma.
Ma veniamo al dunque della ricerca. Dopo diversi e affrettati soggiorni in varie parti dell’Italia centro-settendrionale, finalmente troviamo Dante nel 1310 in Casentino presso i Conti Guidi, come rifugiato ma anche in veste di diplomatico.

Nel 1308 era stato eletto imperatore dai maggiori principi tedeschi, un uomo di indole valorosa e cavalleresca, il Conte di Lussemburgo, che aveva preso il nome di Enrico VII (da noi Arrigo). Egli si prefisse subito la restaurazione dell’Impero, alla quale lo chiamavano i ricordi del passato e le disperate invocazioni dei Ghibellini e dei Guelfi Bianchi.
Nel 1310 lasciava la Germania per scendere a pacificare la penisola e per cingere a Roma la corona dell’Impero.
Alla notizia della sua venuta i Ghibellini esultarono pieni di speranza, mentre i Guelfi presero le armi e si strinsero intorno al Re di Napoli, Roberto D’Angiò.

Secondo Dante (e la critica storica), Arrigo dopo aver attraversato le Alpi, commise l’errore di perdere tempo in Lombardia, mentre sarebbe stato più logico spingere rapidamente il proprio esercito (per la verità nemmeno tanto rumoroso: appena 5000 soldati) oltre gli Appennini, in direzione di Firenze perché lì era il nemico  principale da sconfiggere.
Fu in quell’anno che Dante, ospite del Conte Guido di Battifolle nel castello di Poppi, dettò alla Contessa alcune lettere da inviare a Margherita di Bramante perché convincesse il.marito Arrigo di portare aiuto ai fuoriusciti fiorentini,

Mentre l’Imperatore stava assediando Cremona ricevette una di queste lettere scritte in pessimo latino il cui senso era il seguente: -PERCHE’ INDUGI IN LOMBARDIA? NON SAI DUNQUE CHE LA RADICE DEL MALE NON E’ LA’, MA QUI’ IN TOSCANA? IL SUO NOME E’ FIORENZA. ECCO L’ARPIA CHE DILANIA LE VISCERE DELLA MADRE SUA, DELL’ITALIA, SOLO DOPO AVERLA SCHIACCCIATA VINCERAI, SALVANDO TE STESSO E NOI.
Secondo Dante, l’Imperatore doveva sentire il dovere di intervenire subito, ridurre all’impotenza IL MOSTRO CHE AMMORBA CON IL SUO FETORE TUTTA LA TOSCANA; INUTILE PERDERE TEMPO CON CREMONA, SE SI VUOLE LA PACE DEFINITIVA BISOGNA BATTERE FIORENZA CON LA FORZA DELLE ARMI, SOLO COSI’ TROVERANNO CORONAMENTO LE SPERANZE DEGLI ESULI E DEI PERSEGUITATI. ESTIRPATO IL BUBBONE DELLA RIBELLIONE – continua Dante nella sua violenta richiesta – SI SCHIUDERA’ PER TUTTI UN’ERA DI SERENITA’ E COME ORA, MEMORI DELLA SANTA GERUSALEMME, PIANGIAMO ESILIATI IN BABILONIA, COSI’ ALLORA RIDIVENTATI CITTADINI E RESPIRANDO IN PACE, RICORDEREMO NELL’ALLEGREZZA I TEMPI DELL’INFELICITA’ E DEL CAOS.

Per queste sue invettive cosa ne pensavano a Firenze di Dante?
Era da considerare un traditore passato al nemico, uno da mandare alla forca!
In quel tempo ben pochi erano in grado di capire la volontà politica di Dante, per il quale, dopo il fallimento delle rissose democrazie comunali, soltanto un grande monarca aveva il diritto sacrosanto d’instaurare l’ordine e la pace.
Per il grande Esule il fatto che l’Imperatore fosse straniero rappresentava un particolare di secondaria importanza; il suo impero passava oltre il concetto di nazionalità, ma il vagheggiare di Dante su una istituzione ormai al tramonto, sperare in forme politiche appartenenti al passato senza vedere gli aspetti positivi delle realtà comunali, stende una luce patetica sul suo impossibile sogno.

L’Alighieri fu un moderno in molte cose dello scibile umano: nel sostenere la fine del latino come lingua universale e la necessità storica delle lingue romanze; nell’insistere sulle dottrine che proclamavano la separazione nella Chiesa del potere temporale da quello spirituale, ma di fronte alla politica restò fermamente ancorato ai concetti medievali, salendo a ritroso dalla municipalità all’impero, dalla democrazia al totalitarismo, dall’insanguinato tormento delle repubbliche, alla pace sotto l’egida del monarca universale.
Secondo Dante, con Arrigo VII, le cose sarebbero cambiate in meglio. Non più sottomissione allo straniero, bensì la volontaria accettazione d’un principio globale, la legge dell’impero che promana da Dio perché CIO’ CHE E’ UNIVERSALE NON E’ STRANIERO A NESSUNO.

A Firenze questi concetti irritarono ancora di più i fiorentini contro il concittadino, propagandista dell’Imperatore.
Fu così che inviarono in Casentino un ambasciatore con alcuni soldati per arrestare il Poeta, ospite dei Conti Guidi in quel di Porciano.
Porciano si trova a un chilometro sopra Stia. Mentre l’ambasciatore saliva al castello per chiedere la consegna di Dante, i Conti avvisati per tempo del suo arrivo preferirono fare allontanare Dante. Mentre il Poeta scendeva incappucciato, tutto solo, verso Stia, s’incontrò con il delegato di Fiorenza. Non conoscendo questi Dante, gli chiese se il fuoriuscito Alighieri si trovasse al castello. La tradizione vuole che il Poeta rispondesse argutamente: QUAND’I  V’ERO, I V’ERA.

Poco dopo Dante, dal castello di Porciano, ospite del Conte Bandino (31 Marzo 1311), scrisse la famosa lettera:
DAI CONFINI DELLA TOSCANA PRESSO LA FONTE D’ARNO, L’ANNO PRIMO DEL CORRIMENTO A ITALIA DEL DIVINO E FELICISSIMO ARRIGO…… DANTE ALIGHIERI FIORENTINO, BANDITO SENZA COLPA, AI FIORENTINI SCELLERATISSIMI.
COME FATE A NON TEMERE LA DANNAZIONE ETERNA, TRASGREDENDO TUTTE LE LEGGI DIVINE E UMANE? ASSERRAGLIATI DENTRO LE MURA DI FIORENZA CARCHI DI TUTTE LE BRAME E AD OGNI NEQUIZIA DISPOSTI.

Dante sapeva della costruzione in atto della grande cerchia (l’ultima, quella dei Viali di Circonvallazione) che a suo tempo era ancora in più parti formata da semplici palizzate. Infatti continuando nella sua lettera, inveiva: A CHE VI ACCERCHIATE DI FOSSATI, A CHE VI ASSERRAGLIATE DI BATTIFOLLI E TORRI, SE TERRIBILE COME FOLGORE E’ SOPRA DI VOI L’AQUILA D’ORO? VEDRETE I VOSTRI EDIFICI SGRETOLARSI AI COLPI DI ARIETE E CONSUMARSI ALLA VORACITA’  DEL FUOCO.
La previsione catastrofica di Dante non si avverrò: “L’Aquila d’oro” Arrigo, perdeva le penne in Lombardia e la “terribile folgore” non giungeva ad incendiare Firenze.

Sempre PRESSO LA FONTE D’ARNO (16 Aprile 1311) Dante indirizzò una epistola: AL SACROSANTO TRIONFATORE E SINGOLARE SIGNORE ARRIGO, PER DIVINA MISERICORDIA RE DEI ROMANI SEMPRE AUGUSTO…..APPARE STRANO IL TUO INDUGIO, POICHE’ TU, GIA’ VITTORIOSO NELLA VALLE DEL PO’, VOLGI ALTROVE I TUOI PASSI, ABBANDONANDO E DIMENTICANDO LA TERRA TOSCANA. FORSE IGNORI, TU ECCELLENTE FRA I PRINCIPI, E DALL’ALTO DEL TUO TRONO NON T’ACCORGI IN QUALE COVO SI ANNIDA LA PICCOLA VOLPE PUZZOLENTE, CHE NON TEME I CACCIATORI?

CERTAMENTE LA REA NON SI DISSETA NELLE RAPIDE ACQUE DEL PO’ NE’ IN QUELLE DEL TUO TEVERE, MA BAGNA LE ZAMPE NELL’ARNO TORRENZIALE, E SE NON  LO SAI, QUESTA TRISTE MALEDIZIONE E’ FIORENZA. ESSA SI OPPONE AI COMANDAMENTI DI DIO, SERVENDO SOLTANTO LA SUA CUPIDIGIA. MENTRE DISPREZZA IL SUO LEGITTIMO SOVRANO, PATTEGGIA CON UN RE NON SUO, DIRITTI NON SUOI.
Questo re col quale Firenze trattava era Roberto D’Angiò, succeduto sul trono di Puglia e di Sicilia a Carlo D’Angiò.

Roberto D’Angiò, già comandante dei fiorentini nella guerra contro Pistoia, aveva fatto sua, come i suoi antenati, la causa dei Guelfi, diventando il maggiore alleato della Repubblica Fiorentina.
L’Alighieri, dal Casentino, temeva la risorgente potenza dei Guelfi, infatti, il Conte Bandino Guidi, per opportunismo, tradì le promesse fatte ai Messi Imperiali (Convegno di San Godenzo) mettendosi dalla parte dei Guelfi Neri.
E’ probabile che proprio in quel momento Dante sia stato rinchiuso per qualche giorno a causa della sua ira verso il conte nella torre di Porciano. “Dantes turrem vulgo appelatam” e non come prigioniero della battaglia di Campaldino come vorrebbe la lapide apposta.
Per punire il feudatario spergiuro e traditore di quell’Arrigo  nel quale l’esule infelice aveva riposte tutte le sue speranze, nella Divina Commedia il Poeta definì i Conti di Porciano: – BRUTTI PORCI, PIU’ DEGNI DI GALLE CHE DI ALTRO CIBO FATTO IN UMAN USO (Purg. XIV, 43-44).

Per finire, dunque in Casentino Dante trascorse molti giorni importanti della sua vita. Soffrì l’esilio, nutrì speranze e senz’altro scrisse parte dell’Inferno; amò una donna del posto (2); avrà pregato nei monasteri di Camaldoli e La Verna e poi deluso prese la via dell’esilio: ERA GIA’ L’ORA CHE VOLGE IL DISIO AI NAVIGANTI E INTENERISCE IL CORE, perché dopo il Casentino per lui ci fu solo l’esilio definitivo.

Ed è vero che i personaggi, i luoghi di questa terra hanno ricevuto dalle parole di Dante il loro stampo e la loro consacrazione; i fatti storici ivi avvenuti calcano a pennello per essere descritti con pungente realtà nella sua Commedia, come i tramonti invernali malinconici e ricchi di nostalgia di questa terra incantata.

Enio Luigi Pecchioni


1)  Quando Arrigo si trovava  impegnato nella Pianura Padana, Dante Alighieri insieme ad altri ghibellini corse alla sua presenza. Non sappiamo quel che Arrigo e Dante si dissero nell’unico incontro che ebbero nei pressi di Torino: SE MAI TORNI A VEDER LO DOLCE PIANO CHE DA VERCELLI A MARCABO’ DICHINA (Inf. XXVIII/74-75) e non è probabile che l’Imperatore comprendesse pienamente la grandezza dell’uomo che gli si inginocchiava davanti. E tuttociò non già perché Arrigo fosse un barbaro: era stato educato alla corte di Francia, parlava bene il francese e non disdegnava gli ingegni; ma Dante dovette sembrargli soltanto uno dei tanti fuoriusciti italiani, più colto e più sinceramente devoto degli altri che accorrevano a lui da ogni parte.

2) Nelle “Rime Pietrose” il Poeta cantò:  COSI’ M’HA CONCIO AMORE IN MEZZO L’ALPI. Le male lingue riportarono che non si trattasse di una bella donna, perché tra l’altro avrebbe avuto il gozzo.

Tratto da Mediaframe.it/testi.htm

foto tratta da www.florenceholidays.com

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Franca Loretta Norcini
LA FINESTRA SULLA VALLE
Fruska, Stia (AR), 2001, p. 191.
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La terra casentinese nei sogni di giorni lontani.

“Mi affaccio alla finestra della mia casa di città. e vedo distese di tetti, campanili, balconi con gerani, negozi, strade ingorgate dal traffico, gruppi di passanti. vedo il pasesaggio di sempre, che mi è abituale, che fa parte dle mio quotidiano, e che pure mi sembra estraneo, quasi fosse una cartolina di una città sconosciuta. Perchè sono finita qui? mi domando, ma davvero sono qui? (…)”

Un’interessante documentazione fotografica arricchisce e completa questo volume che ha già ricevuto un riconoscimento per la narrativa al XXI Premio letterario internazionale Casentino di Poppi.

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