Lo scorso sabato 23 giugno ero tra il pubblico dell’auditorium di via Folco Portinari a Firenze, convinto che, in un modo o nell’altro, avrei assistito ad un convegno dedicato al fuoco…
Ho pensato che quel convegno potesse essere un punto di partenza per nuove intuizioni su come e perché il nostro bagaglio culturale (di noi fiorentini; di noi italiani; di noi europei) possa, in certi individui, animarsi fino ad un’irrequietezza assoluta; a prese di posizione che, per esser chiari, fan tremare la posizione stessa, attivando la reazione chimico-letteraria di una sorta di “riscatto perfetto”.
…L’incontro era dedicato ovviamente a qualcuno di preciso, un grande scrittore fiorentino: la mia più agguerrita e incontrollabile compaesana. Che fu quel che fu, essenzialmente, in virtù di un fuoco suo, ma forse anche un po’ nostro.
Ebbene, credo d’averci visto giusto: le testimonianze dei relatori sono confluite entro breve nella medesima tonalità. Più che aneddoti dedicati allo scrittore potevano somigliare a parabole dedicate al fuoco. Il fuoco di quell’autore, ma anche il fuoco di Firenze, a cui si contrappone il diaccio che conosciamo. Quello che stempera il ricordo dei suoi figli più irrequieti. Quello che si manifesta nella scarsità di pubblico presente a incontri come il suddetto. Quello della «cittadinanza che rimuove» e che, producendo silenzio, punisce duramente; che non è interessata più al bilico, né al “bello”, all’a priori del valore letterario ed è persa dietro alle convenienze del momento.
Quel diaccio che spinge, in altri casi come in questo mio scrivere, ad un maledetto, ma talvolta necessario, dire-non dire.
A proposito del fuoco di Firenze: è chiaro come non debba più essere cercato in città.
C’è chi dice che esso sia stato spento quasi completamente dalle alluvioni dell’Arno, già dal Rinascimento e irrimediabilmente nel 1966.
Durante le ultime decadi, in cui il Centro storico è stato ceduto definitivamente a turismo di basso profilo, minimarket alieni e altre vacuità, il “fuochino” si è ridotto ad una fiammella nascosta in qualche casa, tra le righe dei pensieri di qualche amico attempato, tra le masserizie e le cornici degli ultimi fratelli in tempesta.
Tuttavia, per quanto mi riguarda, vivendo la questione nel micro-clima della mia persona, ciò che sembra aver più peso nella gestione del fuoco è un aspetto semplicemente biologico. È il passare degli anni, nel mio caso il raggiungimento dei 40 anni; un fatto personale, sì: e questo mi svincola da chiusure teoriche definitive, permettendomi d’esprimere con libertà il mio sentimento nell’ambito di un’umana accettazione di sé.
Quindi si dica pure che sto blaterando sulle mie emozioni e crisi personali.
Il punto è che talvolta ho la sensazione drammatica che, a Firenze, si possa resistere al massimo qualche decade.
Dopo di ché le menti più infuocate, valide o mediocri che siano, se possono valuteranno una fuga. Si salvi chi può!
In alternativa si dovrà accettare di divenire definitivamente parte della città…quindi aprirsi alla cittadinanza o comunque interagire con la fauna del “paesaggio urbano”. Ho infatti l’impressione che questa “partecipazione” presenti nel caso specifico dei tratti paradossali: una città in cui tanto ruolo hanno avuto il bello e l’individualità (lo si veda nelle opere d’arte, nella letteratura, nella storia e nelle architetture tutto intorno) non può permettere un sereno, organico e profondo assorbimento dell’io e della sua tensione/aspirazione ad emergere, se non con soluzioni complesse e in molti casi inattuabili.
E penso che questo sospetto possa valere per ogni città italiana che richieda d’esser vissuta così com’è primario, identitario e forse costitutivo vivere-Firenze.
Il fiorentino, nel profondo del suo animo, non si fa dunque paesano, indaffarato in qualche lavoro nel sereno sfondo di un dipinto; non è mai definitivamente “di popolo” se il popolo è un fatto di meccaniche-anche-divine. Al contrario, cresciuto nel bello (che riconosce e attraverso il quale si individua), è reconditamente “innescato” e spesso “tormentato” dall’ombra di esso. Il bello, scuotendo l’animo sin da bambini, sembra permanere come una sorta di “trauma fondamentale”.
Un “trauma” che spesso non viene accettato né compreso, che in altri casi viene ri-gestito strategicamente, con fine intelletto, rimanendo a metà strada, forse intimamente consapevoli di una pseudo-disgrazia. Perché il “trauma”, posto sia riconoscibile come tale, è sempre lì e fa il suo lavoro di trauma. Scava. Rende patetici i gesti più positivi, l’idea stessa di “esser parte”, poiché qui tale idea si fonda, paradossalmente, su una tensione a riemergere e distinguere.
La problematica appare come un fatto personale anche se credo accomuni molti animi. Una questione aperta, che resta più o meno sospesa in uno stato di ovattato innescamento: un conto alla rovescia senza fine. Perché è plausibile che al “trauma” del bello si risponda solo riaccendendo il fuoco e portando a termine qualche tipo di falò, con tutti i rischi del caso. E non lo fa quasi nessuno. E se lo fa, poi di solito è costretto a fuggire, dopo un rigurgito, spesso mascherato da “questioni personali”.
D’altro canto, se non si accetta di bruciare, se si cerca una mimetizzazione nel “popolo del paradosso”, allora si dovrà allontanare certe “aperture” e con esse i personaggi che le affermarono. Così fu per il Poeta. Così per lo scrittore.
Dunque vivacchia, questo qui, incatenato alla condanna di una fatale individualità e sempre troppo poco ignorante per riuscire ad ignorarla; fine consapevolezza, pensiero divino e derelitto, carezza e schiaffo in una mano sola. Un bouquet complesso, quello di questo fiorentino: che da un momento all’altro sembra appassire se non farsi malsano; puzza di Arno marcio, di piscio nei vicoli del Rione, di smog che si accaparra i marmi dei palazzi incipriandosi degli odori delle vetrine gettate sul davanti.
Un giochino, alla lunga pessimo e perversino, che molti fanno con sé stessi, specie quando compiono le loro piccole orazioni.
E dove cercare allora la fiamma della Fiorendipità?
Dopo qualche decade, a Firenze, si comincia a guardare a fuori, alla campagna, con aria più curiosa e pensieri macchinosi. Si immagina un “Chianti” che non esiste, un territorio mentale inteso come luogo d’esilio e di sopravvivenza: una prospettiva che si pone oltre la superficie delle foto da cartolina e oltre i semplici confini di un consorzio.
Un “Chianti” dove poter bruciare serenamente, senza rabbia rimossa, gridando silenziosamente la propria individualità, sparando a tutto volume il rumore di fondo del “trauma fondamentale”.
Un “Chianti” dove, in ultima possibilità, meditare su quello stesso fuoco. Riaccenderlo nel silenzio di un casolare, in qualche serata d’agosto, per comprenderlo meglio, al buio, isolato dalla poltiglia dell’io. Appiccarlo nel proprio athanor personale che da un lato allontana dall’oggettività politica del pensiero e dall’altro rende possibile, di essa, gli sviluppi più insospettabili.
Riconoscere quindi, nelle fiamme, sfumature che sarebbero impercettibili nel diurno metropolitano. Riconoscere il suo suono del suo scoppiettio irriverente, incomprensibile nelle rotonde dei viali come nelle strade dei rioni. Gustare il suo calore assieme ad un bicchiere di vino. E riconoscere anche in quel vino un riflesso di quel fuoco.
Bruciare così, serenamente, consumandosi. Come fecero probabilmente i parenti dello scrittore, e lo scrittore stesso.
(…)
A distanza di qualche mese, tornato stabilmente in città dopo le fughe estive…trovo Firenze che ancora, in modo un po’ contratto, ricorda lo Scrittore Fallaci (stavolta la sua morte).
Ho pensato di pubblicare quello che scrissi di getto mesi fa, dopo aver assistito ad un convegno, fosse solo per trovare la dignità – quindi la forza – di occuparmi ancora di certe questioni fiorentine.
I toni a tratti possono essere un po’ eccessivi ma il “fuoco” resta tale e, se ne avete un po’ da trasmettere…noi di Press & Archeos siamo qui per recepire e alimentare… LP