Il valore delle parole tra Shakespeare e John Florio. Intervista a Davide Gucci
a cura di Myriam Venezia
Crediamo, dopo secoli e numerosi studi a riguardo, di sapere proprio tutto sulla vita professionale di Shakespeare e sulla figura a tratti nebulosa di John Florio?
Davide Gucci, classe 1975, docente presso il Liceo Artistico di Pistoia e appassionato di teatro ha deciso di fugarci ogni dubbio analizzando la questione in un saggio.
Con “Shakespeare in Boboli”, edito daPress&Archeos, Davide Gucci vuole indagare e fare luce su alcune vicende che a distanza di secoli e nonostante numerosi studi a riguardo non sono ancora del tutto chiare. Ma non solo. Questo libro nasce soprattutto da un desiderio: aiutare a comprendere meglio le opere di Shakespeare e le sue tematiche sociali.
Introdotto da una prefazione magistrale di Rachel Valle, autrice che ho già avuto il piacere di intervistare, il saggio è articolato in 30 capitoli e ripercorre quasi cronologicamente le vicende della vita di John Florio e William Shakespeare mettendo in evidenza le affinità e le discrepanze, i momenti in cui le due vite quasi sembrano sovrapporsi, a contornare l’analisi etimologica che l’autore propone.
Innanzitutto, una curiosità mi nasce spontanea, come mai hai deciso di focalizzarsi e studiare proprio la figura di John Florio? Ai più, è una figura pressoché sconosciuta che aleggia intorno al più altisonante nome di Shakespeare.
Se pensiamo a questo nome, Florio, verrebbe da pensare al vino o ad un ritratto del Boldini che ritrae un’elegante signora della Palermo bene di fine ottocento, ma pochi conoscono questo letterato, massimo interprete della cultura italiana in Inghilterra e traduttore di opere fondamentali come i Saggi di Montaigne o il Decameron. È un personaggio sconosciuto ai più, nonostante sia stato dopo Shakespeare e Chaucer colui che ha inserito più parole nuove all’inglese. Florio creò il primo dizionario italiano-inglese con oltre settantaquattromila parole italiane, raccolte dalla Toscana ma anche dal Veneto o dal siciliano, anticipando il primo dizionario della Crusca. Eppure, nonostante fosse apprezzato ovunque nell’aristocrazia per la sua cultura, amico di poeti, teatranti e drammaturghi è anche straordinariamente vicino alle opere di Shakespeare. Lo troviamo ovunque appena si prova a scavare in una qualsiasi delle opere di Shakespeare. Persino il suo stile è molto simile e anche le parole che usa lo sono. Come ha scritto Frampton, un importante studioso di Shakespeare, è impossibile distinguere i due autori. Come entrambi pensino nel solito modo. Ed è incredibile poi come il suo nome sia stato messo da parte anche in Inghilterra.
Negli anni è emersa negli ambienti letterari e non solo (persino sulle reti Rai) una certa questione “Crollalanza”. Leggendo quello che hai scritto nel tuo saggio ho subito pensato ad una moderna “Questione Omerica”. Ma tu come ti sei destreggiato tra la miriade di informazioni anche discordanti che si possano trovare in merito? Come ti sei posto nei confronti della documentazione?
Intanto mi sono concentrato sugli elementi probanti, sui fatti. Ho espressamente voluto riportare alla leggenda ciò che non è verificabile, sia per quel che riguarda la biografia di Shakespeare che quelle connessioni che sono state ravvisate per giustificare la mole ingente di cultura che le sue opere lasciano trasparire. Da una parte esiste una discordanza tra l’attore di Stratford e l’opera di Shakespeare, ma dall’altra non è plausibile prendere per buona l’ipotesi Crollalanza in quanto si tratta di una semplice e molto fantasiosa leggenda. Del resto, se l’alternativa è un’altra leggenda, posso tranquillamente prendere per buona l’ipotesi del campagnolo che si eleva culturalmente fino a vette inarrivabili in così poco tempo e senza lasciare alcuna traccia. Questo caos che ha generato fino a un’ottantina di candidati diversi è stato innescato proprio da questa anomalia: tu mi citi Omero ma lì si parlava di un periodo remoto, dove le fonti scritte erano molto scarse e si tramandava oralmente. Qui siamo di fronte ad una totale mancanza di prove in un periodo in cui dovrebbero abbondare. Se uno scriveva ci sono le prove, ci sono dei libri con delle annotazioni, dei manoscritti, delle lettere… in questo caso non c’è nulla, solo un nome apposto in alcune opere. E le prove certe non ne esistono, da nessuna parte. Nella mia ricerca ho raccolto quanto scritto da illustri studiosi di ogni pensiero, facendo un lavoro onesto di raccolta di dati ed indizi. Da quel punto di vista ho provato a metterli in relazione con le tracce biografiche di cui disponiamo delle prove certe e con queste è iniziato il percorso che mi ha portato a questo libro.
Il cuore del saggio, a mio avviso, sta nel mettere in evidenza le lampanti assonanze tra la produzione letteraria di Shakespeare e quella, meno conosciuta, di Florio. Credi che Florio, con una cultura più raffinata rispetto a Shakespeare, sia stato per quest’ultimo una sorta di precettore? e che Shakespeare si sia affidato ciecamente ai consigli e ai suggerimenti del suo maestro incurante del fatto che alcune citazioni delle sue opere fossero sovrapponibili a citazioni di Florio?
Più che precettore, Florio era una sorta di “ghost writer”, che scrive i testi e li passa a William che può metterli in scena. Una cosa nemmeno tanto strana, se pensiamo a come era il teatro dell’epoca, privo del diritto d’autore, dove i copioni venivano modificati su suggerimento degli stessi attori. Spesso quello che osserviamo oggi nelle pubblicazioni delle opere teatrali era il risultato di svariate messe in scena. Che poi è quanto avviene ancor oggi in teatro, o al cinema, dove la sceneggiatura viene modificata in base a quanto possa funzionare a fini narrativi. È probabile invece che William sia stato una sorta di allievo di Florio, quando arrivò a Londra. Ci sono degli indizi che lo suggeriscono e la vicinanza tra i due sembra palese; lo sostengono tutti, anche coloro che vedono William come autore esclusivo. Da alcuni è ritenuto una sorta di intermediario.
Cosa spinge, secondo te, Florio a “nascondersi” quasi dietro Shakespeare? Leggendo il saggio ho notato una certa applicazione della massima epicurea del Λάθε Βιώσας, secondo te è frutto di una sua scelta libera o è stata dettata da una necessità?
E questo spesso accadeva con autori che restavano anonimi. Erano pochissimi ad esporsi e lo stesso Florio non fu da meno, dato che collaborava con drammaturghi come Webster o Ben Jonson ed il suo nome non compariva mai. Ma perché lo faceva? Non avrebbe potuto guadagnarne in onori? Forse no, perché in quel periodo il teatro era ritenuto un luogo non adatto a chi doveva insegnare le buone maniere nell’alta società. I drammaturghi scrivevano usando pseudonimi proprio per difendersi dagli attacchi di altri drammaturghi – spesso si accusavano a vicenda perché allora come ora la cosa più importante era guadagnarsi la pagnotta. Inoltre Florio aveva un nome che certo non poteva “funzionare”, in quanto straniero in un periodo in cui gli stranieri venivano letteralmente assaliti per la strada, come capitò ad Alessandro Citolini, un insegnante a cui venne rotto il braccio durante una di quelle aggressioni. Con una concorrenza in teatro così agguerrita quale futuro poteva avere un drammaturgo che esponeva al pubblico le sue opere firmandole con un nome italiano? Come minimo avrebbero disertato il teatro che le metteva in scena. O peggio. Per Florio il “tenersi nascosto” assumeva un valore maggiore, se consideriamo che lui, in quanto straniero, si inseriva in contesti che non dovevano competergli e che gli avrebbero causato forse più grane che altro. Del resto, subito prima che comparisse il nome di Shakespeare nei teatri londinesi, venne anche minacciato di morte.
In apertura del tuo saggio dedichi un capitolo allo studio dell’etimologia del cognome Florio, poi nel corso del saggio continui a sviscerare l’etimologia delle parole quasi a sottolineare l’importanza di queste ultime, scelta da me pienamente condivisa. Ultimamente c’è sempre meno attenzione alle parole e alla parola, ho notato una sorta di deriva in negativo che sminuisce il potere evocativo della parola. Come lo spieghi?
Credo ci sia la necessità di riscoprire il valore delle parole, la loro specifica natura, e quanto esse siano parte di un percorso che stiamo perdendo. Il linguaggio si assottiglia sempre più, per divenire semplice, ma allo stesso tempo scarno, senza storia. La parola ha in sé significati molteplici e molteplici sfumature che variano a seconda del contesto ed ha una propria sonorità. Questo è un aspetto che mette in comune profondamente Florio e Shakespeare: le assonanze o i giochi di parole erano parte profonda del loro linguaggio e ciò ne testimonia un uso creativo che già possiamo notare nel titolo del suo dizionario, ‘Un mondo di parole’, che nell’originale inglese suona come “a world of words”. Ad un certo punto sono anche entrato sul campo delle ipotesi sullo stesso nome di shakespeare, come “shake” e “speare”, lo scuotilancia, e come anch’esso faceva parte di un mondo diverso da quello attuale, dove la parola assumeva un valore molto più “vivo”. Questo perché era un periodo in cui i linguaggi si andavano arricchendo di parole nuove e non impoverendo, dove abbondano sempre più parole prese pari pari da un’altra lingua, senza quindi un adattamento.
a cura di Myriam Venezia