Iniziai a interessarmi al vinsanto senza premeditazione, un giorno in cui mi trovai per ragioni di tutt’altra natura a Montagliari, vicino a Panzano in Chianti, ed ebbi occasione di visitare la vinsanteria della fattoria.
Gli odori, le suggestioni, la temporalità…richiamarono alla coscienza una parte di me che era come scivolata via, immergendosi nel candore di qualche ricordo di famiglia, qualche volto di parente declamante le qualità del suo vino; bottiglie dorate che, nelle serate in campagna, attraversavano intere estati talvolta con qualche mosca galleggiante dentro, curiosa strampalata polarizzazione metaforica.
In poco tempo, guidato da un’antica vocazione, misi sù un progetto e realizzai un documentario, sincero ma complesso, articolato, personale, pieno di frasi e riferimenti che stendevano una palizzata con il pubblico generico e determinavano, da subito, una sorta di selezione. Ero un po’ arrabbiato, non lo nego. Il 2013 fu l’anno della più profonda crisi del mio settore e avevo bisogno di appigli simbolici per ricreare un discorso capace di rigenerare il mio Io. Ma non solo.
La verità è che il vinsanto non lo avevo mai capito fino in fondo, e sfido i più a capirlo. Con il suo mondo fatto di gesti, tradizioni, suggestioni e sapori antichi sembra porsi, oggi che lo percepiamo dal corso della crisi, come il trionfo paradossale di un’estetica desueta, sospesa tra umidi ambienti canonici, suggestioni campestri e vecchi salotti di case delle Nonne. Le stampe sulle etichette con le loro figure baldanzose; gli stemmetti ingialliti; la sacrosanta ossidazione; il residuo dolciastro diffuso nel palato: tutto questo sembra oggi, il più delle volte, semplicemente improponibile a un livello mondano (e non solo).
Ma proprio per questo, qualcosa come il vinsanto, a cui si doveva dar tempo e che si doveva ascoltare come un anziano grillo-parlante; insomma un vino che non si poteva bere senza accettare di fingere a se stessi l’esistenza tutto intorno di un mondo che non c’è più…mi affascinava. Mi ricordava una parte di me, da recuperare, come credo la ricordi a molti.
Per queste ragioni probabilmente già da tempo avevo cominciato un giochino (come si chiamano dalle nostre parti) tra me e me; un diversivo per salvarmi dalla noia e dall’alienazione di certe cene e cenacoli, aperitivi e feste, matrimoni e battesimi. Insomma, ogni volta che mi trovavo davanti un barman, un catering o qualcosa di simile, mi divertivo a “turbare” il/la ragazzo/a di turno chiedendogli se aveva vinsanto da servirmi. E ovviamente i più non l’avevano, mentre altri tiravan fuori il solito vino liquoroso, invecchiato un anno scarso e allungato con sadiocòsa. Mi atteggiavo un po’, suscitando qualche sana antipatia, finendo per prendere un amaro qualsiasi.
Ma com’è possibile qui in Toscana, pensavo tra me e me, l’assenza del vinsanto al banchetto di un matrimonio? Magari una festa voluta proprio da qualche Madre o Padre per ostinata sintonia con la tradizione? Gli sposi, consacrati in una chiesa di campagna solo poche ore prima, cosa dovrebbero bere se non un vin Santo, che l’ebbero pure al tavolo i santi e gli apostoli al banchetto della Cena Reale? (Tachis, 1988)
Cosa è successo dunque a quelle Madri e Padri? Forse se ne sono semplicemente “dimenticati”?
Andando avanti, ho scoperto che non è che il vinsanto non piace o che si preferiscono inequivocabilmente i “moderni” alcolici: semplicemente questo vino non trova più uno spazio nell’arco della giornata così com’è oggi intesa.
Non ci sono più le figure di un tempo, a loro modo pazzesche quanto capaci di scandire un ritmo. Non c’è più quel signore incravattato che passa a portare i francobolli ai bambini a cui la massaia parsimoniosa offre il vinsantino. Non ci sono più, o quasi, gli “amici miei” che giocano a carte la domenica sera con la radio accesa e i portacenere colorati. Non c’è il vecchio zio seduto in un angolo che verso le sei di sabato comincia a smaniare e borbotta di stomaco. Non c’è la vecchia parente che porta le stoffe odorose di mobili di campagna, ricamate nella sua casa di provincia. E così via. Ma queste sono solo, appunto, figure.
In generale, non c’è un momento per «berlo, perché no, anche da soli, magari leggendo un libro e gustando un crostino» (E. S. Prinetti, 2014). A pensarci spesso non c’è né il libro né il crostino, quanto il libroide e il guacamole; e non c’è nemmeno il “da soli” perché non frequentiamo più la nostra interiorità.
Ma se si ricrea quel momento, almeno tra sé e sé (fuori, cribbio, è praticamente impossibile!), chiudendo la connessione all’attuale ed aprendosi al mistero del tempo, allora ecco che il vinsanto diviene il vino di tutti.
Perché la comprensione di sé e del proprio vinsanto, così come il lavoro per la sua ri-creazione, è un lavoro sul tempo in cui il tempo crea i valori e le distanze. E qui, paradossalmente, l’esser fuori-moda, fuori-tempo o addirittura contro-tempo, produce una ricchezza, rende possibile l’accesso a quegli insospettabili serbatoi d’energia…a cui mi piace spesso alludere.
Da qualche parte, tutti noi italiani, nel sottotetto della nostra psiche abbiamo qualche caratello in attesa…dove i lieviti-madre fermentano, talvolta tumultuosamente, preparando sempre qualche idea in Più, e al di Là.
Così, ancora una volta, archiviato il documentario, si riparte da qui: da un libro sul vinsanto e da una nuova cena a tema. La data: 10 luglio.
E stavolta sembra arriveranno pure gli yankees…
LP
(e. f. II/6-16)