Un ‘Profilo di Donna’ dalla storia al teatro. Intervista a Patrizia Ronzoni
a cura di Myriam Venezia
Questo libro ha un’ambientazione storica, ma non è un romanzo storico. Si tratta di un testo teatrale, la drammatizzazione delle lettere, autentiche, di una nobildonna fiorentina vissuta nel XV secolo.
Patrizia Ronzoni, l’autrice di quest’opera è laureata in lettere all’Università di Firenze. Da sempre è appassionata di teatro, passione che alimenta frequentando dal 2019 la Scuola di Teatro Fiorentino del Teatro di Cestello di Firenze, partecipando agli spettacoli della Scuola sia come co-autrice che come attrice. Profilo di Donna nella Firenze del Quattrocento è il suo primo libro edito da Press&Archeos, frutto di passione e dedizione con dialoghi intensi che lasciano trasparire il grande lavoro di ricerca storica fatto durante la sua genesi.
In occasione dell’uscita sugli scaffali di questo libro abbiamo intervistato l’autrice per saperne di più e per capire meglio come e da cosa nasce la sua opera.
La figura femminile, come ben sappiamo dalla storia che leggiamo sui libri di scuola, non riceve molte attenzioni e, seppur virtuose, molte donne finiscono nell’oblio della memoria. Caso diverso è per Alessandra Macinghi Strozzi, protagonista di quest’opera. Com’è stato approcciarsi ad una figura le cui origini sono avvolte nel mistero?
Di Alessandra Macinghi Strozzi conosciamo quanto di sé, della sua famiglia, della Firenze contemporanea ci dice lei stessa in queste settantatré lettere che di lei ci sono rimaste. Sono lettere autografe, inviate dal 1447 al 1470 ai figli esuli, soprattutto al maggiore, Filippo, conservate nell’Archivio di Stato di Firenze all’interno del fondo Carte Strozziane. (Questo Filippo Strozzi, sia detto qui per inciso, è lo stesso che, una volta tornato a Firenze, inizierà nel 1489, ormai dopo la morte della madre, la costruzione di Palazzo Strozzi). Le lettere sono ben note a livello accademico, studiate dal punto di vista linguistico, storico, del costume, pubblicate per la prima volta da Cesare Guasti a fine Ottocento (1877), poi ripubblicate a più di un secolo di distanza (1987) nella stessa trascrizione del Guasti ed ora edite on line dall’Università degli studi di Firenze, nella nuova trascrizione di Ottavia Bersano (è una tesi di dottorato). Inoltre, al di fuori delle sue lettere, i documenti conservano diversi dati di Alessandra Macinghi: lettere a lei indirizzate o che parlano di lei scritte da altri, documenti del comune, il Libro dei ricordi di famiglia, iniziato da lei e continuato dal figlio… Dunque, pur non essendo entrata nella Storia con la “s” maiuscola, il ricercatore trova diverse e chiare tracce del suo passaggio. Il destino di Alessandra è molto doloroso: esule insieme al marito Matteo Strozzi e ai figli piccoli a Pesaro nel 1434, in seguito ai bandi emanati dopo il rientro di Cosimo de’ Medici a Firenze, rimasta vedova pochi mesi dopo, a soli ventotto-ventinove anni, per peste (a causa della quale morirono anche tre loro figlioletti), rientrò a Firenze coi cinque figli superstiti (di cui uno postumo, a cui diede il nome del padre, Matteo) e, riscattati i beni del marito grazie alla sua dote, allevò, in condizioni difficili, i figli, tra i quali i tre maschi furono mandati giovanissimi presso i cugini del padre a lavorare e ad imparare il mestiere di mercatante al banco Strozzi, a Valenza, a Bruges e a Napoli. Una volta raggiunta la maggiore età, i figli maschi ereditarono il bando del padre e dal 1458, divenute più severe le norme, non poterono più entrare in Firenze, nemmeno per brevi periodi per una visita alla madre. Il bando fu tolto nel 1466 e ai fratelli Strozzi, rimasti nel frattempo in due in seguito alla morte prematura del figlio più giovane, furono restituiti i pieni diritti di cittadinanza.
Come è nata l’idea per quest’opera e come l’hai costruita?
L’idea è nata dal mio amore per il Rinascimento e per il teatro, ambedue passioni di lunga data. In particolare è nata dalla frequenza, dal 2019, della Scuola di Teatro Fiorentino del Teatro di Cestello, a Firenze, dove vivo. Dopo aver curato la riduzione teatrale di una novella di Renato Fucini per la Scuola di Teatro, ho pensato a quale altro testo avrei potuto drammatizzare, questa volta di mia iniziativa, senza esserne richiesta. Questa Scuola di Teatro mi ha molto stimolata ed ha messo in moto molte cose dentro di me. Conoscevo le Lettere di Alessandra Macinghi Strozzi da quando, trent’anni prima, mi erano state regalate da una mia amica docente universitaria studiosa della lingua toscana antica e le avevo talvolta in parte utilizzate nella mia attività di insegnamento liceale. Questo testo mi attirava per l’ambientazione nel Rinascimento, un “Rinascimento dal basso”, per così dire, (per utilizzare il titolo di uno studio del linguista Pietro Trifone), che mostrava la vita quotidiana di personaggi minori, non universalmente noti. Ero abbastanza sicura infatti di non voler mettere al centro del testo teatrale i grandi protagonisti della Storia, ma, semmai, solo di alludervi; i Medici qui potevano comparire dietro le quinte, evocati dai discorsi dei personaggi, non sul palco.
Inoltre dalle Lettere si poteva enucleare, mi pareva, una storia, una trama, se si limitava il tempo dell’azione scenica tra il 1447, quando iniziano le lettere, e il 1466, quando fu ritirato il bando e i fratelli Strozzi poterono rientrare in Firenze. Pensando in termini teatrali, c’erano spunti di commedia (il matrimonio e il corredo della figlia Caterina, la schiavetta ribelle Cateruccia, i pettegolezzi sugli amori del giovane Lorenzo il Magnifico) e spunti di tragedia (l’antefatto della morte del marito e dei figlioletti a Pesaro, e poi l’esilio, la lontananza dalla madre e dalla patria dei figli Filippo, Lorenzo e Matteo, la morte prematura di quest’ultimo). Intravedevo nel testo originale anche spunti di attualità (l’epidemia di peste, la guerra), oltre che una ricchezza di affetti, di sentimenti, di umanità veramente universali. Pertanto ho deciso di raccogliere la sfida di provare a trasporre le Lettere di Alessandra Macinghi Strozzi in opera teatrale.
A questo punto si trattava di trasformare i monologhi delle lettere, dove appunto c’è una sola voce, quella di Alessandra, in dialoghi, inserire altre voci, altri personaggi; far sì che Alessandra non fosse sempre in scena. Una lettera, però, l’unica da me riportata quasi integralmente (con tagli e raccordi), è diventata il monologo di Alessandra che chiude il I Atto: si tratta della bellissima Lettera Diciassettesima (Diciottesima nell’edizione Bersano) del 6 settembre 1459 a Filippo, sulla morte del figlio Matteo. Inoltre per costruire la pièce bisognava colmare le lacune delle lettere (nella corrispondenza ci sono due periodi di interruzione, la prima dal febbraio 1452 al settembre 1458, la seconda dal febbraio 1465 al marzo 1468), soprattutto perché in questi periodi in cui le lettere sono probabilmente andate perdute si collocano eventi basilari per la storia, come l’inasprimento del bando nel 1458 e la sua cancellazione nel 1466.
Nel testo sono presenti non solo i macro eventi ma anche quei piccoli dettagli di storia locale, come hai ricostruito tali particolari? Quali sono state le fonti, oltre alle lettere di Alessandra Macinghi Strozzi, che hai usato?
Le fonti che ho usato sono state, oltre alle lettere di Alessandra, le lettere del genero di lei, Marco Parenti, marito della figlia maggiore, Caterina, indirizzate anch’esse quasi esclusivamente ai cognati prima esuli e poi lontani per affari, dal 1447 al 1484 (pubblicate nel 1996), i cui originali sono anch’essi conservati nell’Archivio di Stato di Firenze, nelle Carte Strozziane. Inoltre ho utilizzato anche le ricche note del primo editore di Alessandra, Cesare Guasti, direttore dell’Archivio di Stato di Firenze, che, attingendo a quel patrimonio documentario, pubblicò anche brani di lettere dei figli alla madre o di Giovanni Bonsi, marito della seconda sorella, che si chiama Alessandra come la madre, o di Piero de’ Medici o di sua moglie Lucrezia Tornabuoni o di altri personaggi contemporanei in relazione con gli Strozzi. Per la parte più strettamente politica mi sono avvalsa di storici e biografi contemporanei, principalmente Machiavelli (Istorie Fiorentine), Guicciardini (Storie Fiorentine), Vespasiano da Bisticci (Vite di Uomini Illustri del secolo XV).
Altro elemento che mi è balzato agli occhi è la tua scelta di mantenere alcune locuzioni verbali dell’epoca ed in generale ho notato una grande attenzione alla lingua. L’uso di determinati termini permette di calarsi meglio ed entrare nell’ambientazione dell’opera, è stata una scelta semplice da poter sviluppare o hai trovato difficoltà e limiti linguistici?
Sì, ho voluto mantenere la lingua di Alessandra, un linguaggio familiare, ricco di modi di dire e proverbi, e per queste sue caratteristiche probabilmente molto vicino al parlato. Mi sembrava che le vicende degli Strozzi nella nostra lingua moderna perdessero gran parte del loro fascino e soprattutto della loro autenticità. E non si tratta solo di termini, cioè di lessico, ma anche di struttura sintattica, di flessione del nome e del verbo, di espressioni… Ho usato parti delle frasi di Alessandra o di Marco Parenti, intervenendo solo quando pensavo che non ci sarebbe stata comprensione da parte dello spettatore (uno spettatore, al contrario di un lettore, non può consultare il glossario!). Ovviamente, nel costruire il dialogo, ci sono state battute che ho dovuto scrivere io, ma sempre cercando, documentandomi su testi e vocabolari, un lessico usato da Alessandra o comunque esistente nel XV secolo, una struttura compatibile con quella quattrocentesca. Nel dialogo necessitavo a volte di formule di saluto o di commiato che non erano quelle delle lettere, e allora cercavo per esempio nelle commedie di Machiavelli, solo di quaranta-settanta anni posteriori (considerando l’arco temporale delle lettere e la datazione oscillante delle commedie)…È stato certo un processo non semplice, ma via via che procedevo, e leggevo e rileggevo le lettere di Alessandra, entravo sempre più nel flusso di quella lingua arcaica e mi era più facile esprimermi in essa.
Per il lettore penso sia molto meno complicato doversi immedesimare in un personaggio leggendo un testo teatrale, dal momento che i dialoghi e le azioni sono molto più esplicite e dirette. Per me la lettura ma anche la scrittura sono momenti estremamente catartici, nel leggere questo testo mi sono sentita un po’ Alessandra, per te che lo hai scritto com’è stato?
Certo anch’io mi sono sentita un po’ Alessandra, ma soprattutto, più che un’identificazione, c’è stata una conoscenza e comprensione profonda di questa donna reale che, attraverso i secoli, mi ha porto la mano ed è diventata, qui e ora, per me come un’amica; ho vissuto immersa nel suo mondo e me ne sono sentita parte.
Una domanda squisitamente storica: come ti sei approcciata allo studio di queste lettere così importanti? Hai trovato difficoltà nel capire alcuni passaggi o, supportata da una forte conoscenza delle vicende storico politiche che sono sullo sfondo, hai approfondito i singoli topic?
Oltre ai testi che ho già citato, ne ho consultati diversi altri; quindi, sì, certo, c’è stato studio, ma non uno studio sistematico e ordinato, bensì che seguiva dubbi e domande che sorgevano di volta in volta: com’era la condizione degli schiavi, nel Quattrocento a Firenze? Come era regolato e come si svolgeva il matrimonio? Chi erano questi personaggi della storia locale nominati? Com’era l’ordinamento politico? e così via, di dubbio in dubbio, di curiosità in curiosità, in un percorso appassionante e divertente. Certo che ho trovato difficoltà nel capire alcuni passaggi, anzi alcuni passaggi proprio non sono stati capiti, né da me, né da studiosi ben più esperti di me degli autori e della lingua di questo periodo. Per esempio sia Alessandra sia Marco Parenti ad un certo punto, per sfuggire alla censura, utilizzano cifre al posto di nomi e queste sono state decifrate solo in parte dagli studiosi.
Da qualche decennio, nell’ambiente accademico si sta ponendo sempre più attenzione alla storia di genere ed in particolare delle donne, donne che soprattutto in periodi come il 1400 erano, il più delle volte, il vero elemento chiave di una famiglia. Pensi che questa tendenza accademica sia frutto di una più generale tendenza che vuole dare risalto al genere femminile e riabilitare la figura della donna, non più percepita e raccontata come vivificatrice e panificatrice, ma anche come donna dedita agli affari o pensi sia dovuto ad altro?
Sì, c’è anche da parte mia, come nella ricerca storica e nella opinione pubblica, questo interesse per la donna, la sua posizione ed il suo ruolo sociale. Alessandra non è certo una rivoluzionaria o una ribelle, è una donna tradizionale del suo tempo e della sua classe sociale, ma è una donna forte, capace, volitiva, intelligente: vedova, regge la sua famiglia, amministra il patrimonio, è instancabile nel dirigere, correggere, educare per lettera i suoi figli lontani; non è colta in senso umanistico, ma scrive con una certa competenza, tiene un Libro dei conti, è acuta nel comprendere la politica della sua città (giudica con realismo il vuoto di potere dei Signori, i componenti della Signoria, il governo cittadino, cioè i Priori, che devono fare quello che è ordinato loro da chi governa davvero, cioè Cosimo de’ Medici; dà uno sprezzante giudizio su Luca Pitti, che poi, alla prova dei fatti, si rivelerà azzeccatissimo). Quindi è una donna che in questo ambito familiare e per queste qualità possiamo dire influente.
a cura di Myriam Venezia