Il possesso della parola e la sindrome di Qumran
L’invenzione del Libro è legata a quella della scrittura e dunque al contenimento, al trattenimento di ciò che la scrittura lascia scorrere sulla sua superficie: la conoscenza, che può così essere diffusa in modo più o meno selettivo e misurato.
Fermare i saperi in un contenitore è essenzialmente, necessariamente un gesto di possesso. Il Libro è, alle origini, la manifestazione del desiderio di possesso su una conoscenza e può essere funzionale ad esso. Possedere per avere a propria disposizione. Per conservare e nascondere, per diffondere e replicare. Per salvare dall’oblio, forse come forma di possessione ultima e definitiva.
Il possesso, sentimento umano che ha senz’altro un’ombra capace di prendere campo. Che si parli dei nostri Abulafia digitali o del libro, delle lettere, dei diari conservati in una certa sezione della nostra libreria.
In un tempo remoto, cioè prima della scrittura, le parole erano libere, passavano di voce in voce e, in pratica, non erano di nessuno se non di chi le sapeva ricordare e per il momento in cui le poteva ripetere. Noi non avremmo mai il coraggio di tornare in una situazione del genere, perdendo così il possesso sulle parole.
In seguito, ma prima del libro, le parole, già scritte, vagavano generalmente su supporti incerti e corruttibili. Si pensi alle antiche pergamene, su cui oggi filologhi e filosofi ricostruiscono concetti frammentari e ambigui: quelli dei primi grandi pensatori d’Egitto e di Grecia, attraverso una discussione interminabile che è poi la manifestazione di un complesso tentativo di ri-possesso e ripubblicazione.
Un caso davvero esemplificativo della possessione di una verità scritta sono i rotoli di Qumran, a cui il nostro autore Vittorio Di Cesare ha dedicato un nuovo libro di prossima pubblicazione.
Le preziose pergamene, contenenti informazioni che avrebbero potuto essere considerate “scomode” già nel medioevo, furono salvate e contenute in giare di terracotta.
Un “formato proto-librario” che agli occhi di un lettore contemporaneo appare affascinante quanto bizzarro, e che esprime l’atavica determinatezza di un’intenzione di trattenimento.
La parola nel vaso crea un’immagine suggestiva, potenzialmente simbolica. Evoca una forma di possessione femminea, rassicurante e fertile di un futuro perennemente procastinato.
Ma le pergamene di Qumran sono un caso emblematico per ben altre ragioni.
Per il fatto che furono nascoste, non si sa da chi, per essere recuperate in un secondo momento, da ulteriori ignoti. O per il fatto che la loro stessa scoperta è ricca di ambiguità. O ancora, perché per complesse ragioni parte di quei testi esisteva già, prima della recente scoperta, altrove e in altri formati.
Quindi: informazioni che debordano dai loro formati e che sembrano sfuggire e ricomparire un po’ ovunque. Come se fossero tornate ad essere idea, incontrollabile, fuoriuscendo dai vasi trovati infranti sul pavimento della caverna. Viaggiando persino “indietro nel tempo”.
Vi è poi da ricordare, tornando al “possesso”, la vicenda di uomini che dedicarono la loro vita, fino talvolta a compromettersi, o impazzire, o morire, per quelle misteriose scritture e soprattutto accanendosi sulla loro interpretazione.
Sì perché il possesso della parola, questo sentimento basico e così radicato, sembra legarsi al desiderio di un’infinita reinterpretazione della stessa.
Si conserva le proprie parole per poterle reinterpretare, da soli e con se stessi, e avere “tutta la ragione per sé”: espressione di un godimento estremo e solipsistico legato al possesso della parola.
Non a caso, ciascun ricercatore ha visto nelle verità di Qumran risvolti diversi ma riconducibili alla propria personalità. Monaci, studiosi, reverèndi, hippies, indagatori del mistero…
Ora a questo elenco di personaggi talvolta bizzarri e geniali si aggiunge il nostro Vittorio, con un’unica grande eccezione: lui è consapevole di questa apofenia, di questa “sindrome di Qumran”.
E a prescindere da ciò ha reimpostato la sua ricerca, regalando alla nostra casa editrice quelle che sono state le sue scoperte, compiute ormai molti anni fa.
Siamo orgogliosi di questo perché Vittorio, l’ “ultima delle archeo-spie”, è un ricercatore con un vissuto incredibile e un autore di raro magnetismo.
Siamo e saremo felici di parlare ancora di lui e prossimamente del suo libro, delle sorprese che contiene e delle idee che ha svincolato dall’oblio.
LP,
settembre 2022