Dalle Archeo-spie al Figlio del Tramonto, intervista a Vittorio Di Cesare
a cura di Myriam Venezia
Vittorio Di Cesare ha una di quelle personalità che ti affascina sin dalle prime battute, con la sua immensa conoscenza e i suoi racconti avventurosi. Questo è anche l’effetto che fanno i suoi saggi. Nipote di un costruttore inglese di ferrovie, la sua vita non poteva che essere segnata dall’avventura e dalla curiosità, fino a diventare una specie di “Indiana Jones” in salsa italiana.
Per Press&Archeos ha scritto vari saggi come “Archeospie. Alla ricerca del potere segreto nella storia” edito nel 2021, “Qumran connection” edito nel 2022 e l’ultima fatica letteraria: “Apocalisse di Smeraldo. Conquistadores, esploratori e satelliti orbitali alla ricerca dei tesori del Nuovo Mondo“. Quest’ultimo conduce il lettore alla scoperta di luoghi e storie lontani e ignoti, che hanno incuriosito e intimorito molti.
In merito ai suoi saggi, abbiamo fatto alcune domande all’autore per scoprire i retroscena che hanno portato alla stesura e alla pubblicazione in tempi recenti.
Come nasce l’idea di esporre temi che solitamente si trattano in ambito accademico, come quelli delle conquiste della metà del Cinquecento, conferendogli un taglio avventuroso?
Ogni mio libro è nato esclusivamente dall’esperienza di viaggio e di lavoro durante tutto l’arco della mia vita. Come militare (quando ero in servizio attivo), come docente di intelligence all’Università e soprattutto come archeologo, attività principale. L’idea di dare un taglio avventuroso anziché accademico, nasce dal fatto che a studiare la Storia con le sole fonti (reperibili quasi sempre negli Archivi di Stato), o sui testi esistenti, si può incorrere in una visione asettica o peggio, “inquinata” dei fatti, specialmente se si utilizza la narrazione degli scrittori coevi (come nel caso delle documentazioni sulla Conquista del Nuovo Mondo). Analogamente, si può avere una percezione falsata dalle ideologie politiche moderne, quando trattano periodi e conflitti di natura coloniale o religiosa. Vale il modo di dire “la misura falsa il misurato”, un errore nel quale cadono spesso gli storici!
L’avventura e le domande iniziano lavorando nei luoghi dove sono accaduti i fatti, ponendosi quesiti ai quali i libri non sempre hanno dato risposte. Ad esempio nessuno valuta le conseguenze recondite dell’invasione spagnola delle Americhe Centro-Meridionali, problema che ha lasciato una pesante eredità, tuttora percepibile nelle nostre strade con la diffusione di droghe sconosciute prima del Cinquecento.
I difensori della libertà violata dei nativi dimenticano i crudeli massacri rituali in uso nelle loro culture, similmente a quanto accadeva nella religiosissima Spagna con autodafé ed altre torture. Quindi né i conquistati né i conquistatori escono puliti dalla critica, ed oggi si fa solo falsa morale cercando di indicare quale tra i due popoli fosse il “peggiore”.
Tra i tuoi saggi mi ha affascinato particolarmente “Archeospie”. Da dove nasce l’idea di unire questi due mondi, archeologia e spionaggio, e soprattutto quali ricerche hai effettuato per poter poi scrivere un saggio del genere?
La genesi del volume “Archeospie” è quasi una biografia, considerando che nel Novecento (epoca dalla quale provengo, dopo un faticoso viaggio!) la figura dell’archeologo era un importante veicolo sia per raccogliere informazioni su di un paese, sia per stringere rapporti politici. Insomma, un salvacondotto per accedere dove di solito non era possibile entrare. Oggi ci sono i satelliti che fanno il lavoro un tempo dell’archeologo, sebbene soltanto la sua vanga darà una risposta definitiva a quanto si nasconde sottoterra, bunker e altre diavolerie di questa folle civiltà a parte. Anche in questo caso lo studioso si può prestare all’attività conoscitiva che Rudyart Kipling definì “Il grande gioco”, spionaggio nel vero senso della parola. Gli esempi portati nel mio libro danno la misura di questa attività. L’”effetto Indiana Jones” che scaturisce dalle mie pubblicazioni nasce proprio da questa figura che oggi non esiste più, mettendo in risalto come, la vita di un archeologo, fosse un tempo un incrocio tra scienza e impresa rischiosa. Figura romantica, che se ha fatto la fortuna dell’ideatore di “Indy” è stata spesso la rovina e la morte di molti degli stessi archeologi, come nel caso dell’esploratore Percy Harrison Fawcett, scomparso nella giungla. In quanto ai riferimenti all’inizio di ogni capitolo di Apocalisse di Smeraldo, tratti dagli scritti di Howard Phillips Lovecraft, li ho inseriti ritenendo il suo mondo popolato di “Grandi Antichi”, un’allegoria di quella parte primordiale che, possiamo incontrare nella cronaca d’ogni giorno, portandoci a credere all’esistenza di mostri al di fuori di noi, quando in realtà sono ancora dentro di noi, e non solo in senso figurato.
Perché dare un titolo riferito all’Apocalisse ad un libro nel quale si parla di due civiltà in conflitto, sebben su piani diversi culturali?
Oggi, arrivati a un quarto del Duemila, potremmo citare le parole dello storico Arnold Toynbee che afferma con lungimiranza: «Dovunque distruzioni, dovunque una apparente conferma di quella legge non scritta che sembra spingere ciascun popolo lungo il sentiero inclinato al cui termine è la dissoluzione». In momenti come quelli che viviamo oggi oggi, se si guarda indietro, alla storia, potremmo riflettere traendo insicurezze o presagi poco piacevoli.
L’Apocalittica, dalla Bibbia al Vangelo per finire alle aspettative di molte altre religioni ha sempre immaginato la Storia Universale come un continuo a cui “Qualcuno” ha stabilito un termine, dopo di che avverrà una grande catastrofe o un conflitto finale. Allora interverrà una forza straordinaria, al di fuori dell’uomo: l’Armageddon appunto, l’Apocalisse! Ogni giorno, velatamente, i Telegiornali lasciano intuire qualcosa del genere, nelle problematiche internazionali di guerra; lo paventano gli scenari poco rassicuranti di conflitti e rivendicazioni territoriali. Molte sette aspettano l’appuntamento finale sin dai tempi in cui furono combattute guerre come quelle descritte nel mio libro, le cui conseguenze, in effetti, sono visibili nell’eredità nelle città morte Maya, Azteche, Incas: rovine diventate santuari archeologici di un’epoca durante la quale persino gli Spagnoli temevano l’antica maledizione che preconizza la fine per tutti!
Questa paura non è per caso frutto degli infiniti problemi locali, dei conflitti o della ineluttabile decadenza di civiltà, popoli e religioni?
Senza dubbio un archetipo inconscio esiste in questa paura che viaggia nel tempo. Basta leggere un qualsiasi libro di archeologia per rendersi conto che moltissimi altri popoli credevano nell’Armageddon prima ancora che il Vangelo di Giovanni (Apocalisse 16,16) ce ne tramandasse le visioni. In Mesopotamia, l’attuale Iraq, sono stati scoperti modellini di argilla di tremila anni fa sui quali era incisa in caratteri cuneiformi la storia della “Maledizione di Akkad“, un vaticinio che prevedeva la distruzione (che di fatto avvenne), della città di Enkur, colpevole di avere apportato modifiche non gradite al tempio del dio Enlil. Anche all’epoca della guerra civile romana si evocò fortemente la necessità di un “salvator mundi” che alcune profezie individuarono in Cesare Ottaviano Augusto. «La provvidenza – si diceva – ha evocato… Augusto… nostro salvatore… per far cessare la guerra e ristabilire dappertutto l’ordine». Due secoli prima il profeta Daniele aveva immaginato l’Apocalisse iniziando quello che sarà un filone di catastrofismo continuato poi da tanti altri profeti biblici, dai maghi-veggenti tra storia e fantasia, da Merlino a Nostradamus, dal mago della regina Elisabetta I, John Dee, al “Ragno Nero” e da Santa Ildegarda ideatrice delle profezie del “Mandorlo fiorito“, nel quale si definiva l’Anticristo “Figlio del tramonto“. Nome poetico per indicare colui che dovrebbe accendere la miccia che darà fuoco alle polveri del mondo. Nel caso dei “poveri” amerindi costui arrivò davvero, su vascelli battenti la Croce di Cristo! Ma se lo aspettavano da tempo: come facevano a sapere che la loro civiltà sarebbe stata cancellata?
Quanto è stato importante andare in quei luoghi ai fini della stesura del saggio?
Il mio libro ha la sola pretesa di esporre sensazioni ricevute durante gli innumerevoli viaggi di lavoro, ovunque la mia attività mi abbia portato, Centro e Sudamerica compresi. Mi son fatta l’idea che la Storia non dovrebbe essere patrimonio delle sole accademie e delle biblioteche. Dovrebbe soprattutto diventare divulgazione conoscitiva in una narrazione accessibile a tutti. Snelli racconti di un mondo scomparso che chiede di non essere dimenticato e la cui sorte potrebbe insegnarci come non ripetere i vecchi errori. Utopia naturalmente. Oppure potremmo essere partecipi di quelle storie scoprendo che il passato è là fuori, non solo nei monumenti, nei luoghi, negli oggetti del quotidiano riportati alla luce, ma negli usi e costumi della gente, nei loro problemi ereditati dal passato come nel loro modo di essere. È nel DNA di tutti ed è per questo che i ragazzi dovrebbero viaggiare, zaino in spalla e guardare il mondo con i loro occhi per farsi un’idea propria di storia, popoli, uomini e problemi, lasciando che le “sirene” che pontificano sui perché politici della Storia cantino inutilmente!
a cura di Myriam Venezia