Catilina e la battaglia di Pistoia. La fine della Congiura nel nord dell’Etruria

di Enio Pecchioni e Roberto Testi
Firenze 2006
 

Negli anni della Guerra Sociale Fiesole si schierò contro Roma e, nel 90 a.C., fu messa per vendetta a ferro e fuoco dal console Lucio Porcio Catone. Successivamente, durante le lotte fra Silla e Mario, avendo apertamente parteggiato per il console Papirio Carbone del partito democratico, con la disfatta di questi, Fiesole e altre città dell’Etruria ebbero confiscati da Cornelio Silla i beni demaniali e municipali. Le terre furono fatte distribuire dal dittatore fra i suoi legionari che vi stabilirono delle colonie. Fu in tal modo che l’Etruria e specialmente il territorio fiesolano divennero terreno propizio per agitazioni rivoluzionarie.

Alla morte di Silla i plebei “popolari” decisero che era giunto il momento di vendicarsi dei soprusi dell’aristocrazia. Gneo Pompeo, che segnò la fine della supremazia patrizia, riprese il commercio con l’oriente, facendo cadere il prezzo del grano che fino ad allora aveva sostenuto l’aristocrazia terriera, quindi danneggiandola economicamente.
Nel 78 si instaurò un clima di restaurazione costituzionale appoggiata dal console Emilio Lepido, contro il quale Pompeo si rivoltò sconfiggendolo; i suoi seguaci ripararono in Spagna ma Pompeo, pur non riuscendo a vincere i suoi avversari li logorò a tal punto che il rivale del momento, Quinto Sertorio, fu assassinato in virtù dei soliti intrighi.

Nel 71 Pompeo, tornato in Italia, prese parte con spietata ferocia alla repressione della rivolta dello schiavo Spartaco condividendone la vittoria con Licinio Crasso. Nominato console, dimostrò di non voler rispettare la costituzione sillana e di volersi appoggiare piuttosto sull’esercito.
Nella turbolenza politica di quel decennio (vedi le guerre contro i pirati che infestavano il Mediterraneo e contro Mitridate Eupator re del Ponto) un altro episodio, non certo di secondaria importanza, turbò il ritorno pacifico alla democrazia: la cosiddetta Congiura di Catilina che avrebbe avuto gravi ripercussioni sulle ormai fragili strutture della repubblica.

Lucio Sergio Catilina (108-63 a.C.), il cui nome fu infamato dalle invettive ciceroniane, discendeva da una famiglia patrizia decaduta ma che aveva riportato alla ricchezza con le “rapine” del periodo sillano. Catilina aveva mal governato in Africa, per questo non fu accettata una sua candidatura a Console (tentativo che fallì per quattro volte); era stato inoltre processato per l’incesto con una vestale, cognata di Cicerone.
Catilina pensò alla vendetta concependo il disegno di uccidere i consoli che sarebbero stati eletti e, sebbene di origini aristocratiche, passò dalla parte dei più scalmanati “popolari”.
Intanto Tullio Cicerone non riusciva a ingraziarsi i nobili e stava aspettando l’occasione di battere Catilina che aveva contrastato il suo consolato, e di apparire così il salvatore dell’oligarchia che allora dominava in Roma. Attaccò Catilina in Senato con quella violenta diatriba che ci resta ancora con il nome di Prima Catilinaria.

Catilina negò di congiurare e affermò che il suo impegno era quello di voler il popolo associato nel potere al Senato, soggiungendo che egli patrizio non aveva bisogno per la sua carriera di minare lo Stato. Il Senato accolse malamente la sua difesa. Così, dopo esser stato battuto alle elezioni, concentrò i suoi seguaci a Fiesole dove erano ancora freschi i rancori contro il malgoverno di Roma, specialmente da parte delle famiglie etrusche spogliate dei loro terreni; costituì inoltre una quinta colonna all’interno di Roma.
A lui si allearono schiavi, senatori e due pretori, Cetego e Lentulo. Con questa forza alle spalle si ripresentò l’anno dopo alle elezioni. Si dice che per assicurarsene l’esito architettasse l’assassinio del suo rivale al consolato e dello stesso Cicerone.
Infatti quest’ultimo scrisse che durante la notte i cospiratori erano andati da lui per ucciderlo ma erano stati cacciati dalle sue guardie. Cicerone con la QuartaCatilinaria riuscì a fare spiccare mandato di cattura contro Lentulo, Cetego, Gabinio, Statidio, Cepario e il loro capo Catilina.

Maccari-Cicero

Giulio Cesare, allora pretore designato, giudicò con altri senatori, che il Senato fosse incompetente a deliberare su una causa di alto tradimento, della quale la sola assemblea del popolo aveva la giuridica conoscenza, proponendo la prigionia a vita o il perpetuo esilio.
I Senatori esitavano a risolvere il problema ma nell’aula si alzò Marco Porcio Catone detto l’Uticense, allora tribuno designato. Ottimo oratore, colla rude eloquenza piena di sarcasmi all’indirizzo di Cesare e contro coloro che tentennavano egli persuase i Padri che, senza un esempio immediato e più che severo, le sorti della Repubblica sarebbero rimaste pericolanti riuscendo così a strappare la sentenza di morte.
Cicerone non perse tempo facendola eseguire subito per ovviare il pericolo di tumulti che ogni indugio avrebbe fatto nascere. I cinque condannati furono strozzati alla presenza di Cicerone nel carcere Tulliano. Il popolo apprese dalla sua bocca l’esecuzione della sentenza con la parola:“Vissero”; la folla fece ressa intorno a Cicerone acclamandolo salvatore della patria.
L’entusiasmo popolare non impedì però ad uomini autorevoli di biasimare pubblicamente il suo operato.
Infatti quando Cicerone, nel deporre i fasci consolari, volle arringare il popolo per magnificare il suo consolato, il tribuno della plebe Metello Nepote, che era stato legato di Pompeo nelle guerre contro i pirati e Mitridate, gl’intimò di limitarsi al solo giuramento di non aver operato nulla contro le leggi: al quale Cicerone gridò: “Giuro di avere salvato la Repubblica”.
A tale grido eloquente, Catone e i Senatori risposero salutandolo col nome di Padre della Patria, ma né questo saluto né gli applausi popolari con cui fu accolto, salvarono l’ex console da un momentaneo esilio.

Le notizie che venivano da Roma sulle fazioni militari contro i congiurati rassicurarono pienamente gli animi e dimostrarono che il terrore suscitato da Cicerone era stato in gran parte illusorio. Ovunque la presenza delle truppe della repubblica bastò a far svanire il moto. Solo in Etruria, dov’era il quartier generale dei congiurati, vi fu resistenza. L’aveva promossa il futuro proconsole della Macedonia Caio Antonio Hybrida (zio del triumviro Marco Antonio), uomo di dubbia fede; visto suo tergiversare, per un certo tempo Catilina poté nutrire la speranza di tirarlo completamente dalla sua parte. Ma l’esecuzione di Lentulo e degli altri mise fine alle esitazioni e Antonio gli si pose contro.

Catilina, raggiunte le sue truppe a Fiesole si mosse contro i suoi avversari nel nome di Caio Mario, di cui si onorava tenere nell’atrio di casa l’emblema dell’aquila d’argento vittoriosa innalzata contro i Cimbri a Vercelli e contro i Teutoni e Ambroni ad Aquae Sextiae (Aix-en-Provence).
Da Arezzo aveva scritto a Quinto Catulo capo del Senato:

[…]“Oppresso ed eccitato da ingiurie ed accuse, poiché non mi si rendeva quella giustizia che colle fatiche e colle opere mi ero meritata, ho preso a difendere come è nell’indole mia la causa dei diseredati, non già perché non potessi pagare i miei debiti, che se a me mancassero i mezzi verrebbero pagati per liberalità da mia moglie Orestilla, ma perché vedo essere stimati uomini punto onorevoli mentre io mi trovo reietto. Seguo quindi il solo partito che mi rimane per mantenere intatta la mia dignità. Altre cose vorrei scriverti ma sono avvisato che mi si preparano violenze. Ti raccomando Orestilla, alla tua fede la raccomando, e per amor de tuoi figli ti prego difenderla. Addio”.

A Fiesole c’era già C. Manlio che aveva avuto l’incarico di organizzare la rivolta; qui Catilina con gli uomini di Manlio e con quelli che via via si univano formò due legioni di circa 20 mila uomini mal equipaggiati, infatti una buona parte dei “soldati” erano armati soltanto di forconi e spiedi.
Quando mosse contro di loro il console Caio Antonio con un grosso esercito ben armato e ben vettovagliato, Catilina vide dileguarsi il suo; infatti i suoi 20mila uomini si ridussero a 4000 per le diserzioni.
Allora Catilina in tutta fretta uscì da Fiesole tenendosi fra i monti, cercando di valicare l’Appennino per raggiungere la Gallia Cisalpina e rinforzarsi. Ma un altro esercito, sotto il comando di Metello Celere, stava già al di là degli Appennini pronto a respingere Catilina, mentre Antonio col suo lo incalzava da Sud.
Mentre risaliva il Passo della Collina Catalina ebbe la notizia che l’esercito di Antonio lo incalzava a poche miglia; fece allora deviare i suoi scendendo nella valle del Reno. Fu costretto a fermarsi a Campo Tizzoro, in un luogo pianeggiante, con i monti più alti a settentrione ed aspre rupi dall’altro lato; velocemente ordinò i suoi per la battaglia.
Ad un’ala della truppa dette il comando a Manlio e dall’altra al cittadino di Fiesole che Sallustio chiama
“Faesulanus”, mentre Catilina si pose al centro presso l’aquila di Mario.
Catilina incitò i suoi soldati: (Sallustio
, De Catilinae coniuratione LVIII) “Rammentatevi che combattete per l’onore, per gli averi, per la patria, mentre i vostri avversari difendono la potenza di pochi. Se vi manca il coraggio perirete vilmente scannati a guisa di pecore”.

Le truppe nemiche in arrivo erano guidate dal legato Marco Petreio, questi faceva le veci di Antonio che si era dato ammalato, poiché non se la sentiva di uccidere il suo vecchio compagno. Il comandante schierò in prima linea i 5000 veterani più esperti poi a cavallo percorse le file esortando tutti a combattere velocemente, in maniera risolutiva, per il bene della patria. In quella fredda giornata del gennaio 63 a.C., con un vento che soffiava a sfavore delle schiere di Catilina, furono dati i segnali di combattimento.
L’esercito di Petreio cinque volte più numeroso non ebbe bisogno di nessuna strategia tattica, affrontò frontalmente ad incudine i congiurati dividendo in due tronconi più piccoli la marmaglia e, dopo averla aggirata, in poche ore ne fece strage.
Così, nel luogo che poi prese il toponimo di Malconsiglio (come ultima riunione, ultimo consiglio), l’orda di Catilina si disfece. Manlio e Fiesolano caddero tra i primi: “Manlius et Faesulanus in primis pugnantescadunt” (Sallustio).

The_Discovery_of_the_Body_of_Catiline

Catilina, vistosi sopraffatto e rimasto ormai con pochi, si gettò fra i nemici. Fu trovato in mezzo ai cadaveri agonizzante e così finito a fil di spada (5 Gennaio 692 ad urbecondita).
L’eroismo con cui i rivoluzionari combatterono e la scoperta fra i loro cadaveri di uomini di specchiata onestà, dovrebbero convincerci che quei pochi sovversivi furono capaci di morire per un ideale. Se Catilina non fosse stato completamente sconfitto, pur senza vincere, dopo la battaglia di Pistoja la moltitudine dei seguaci che l’avrebbero aiutato nel far valere le sue idee sarebbe diventata ancor più numerosa. Catilina aveva agito con l’aiuto di elementi assai rappresentativi dell’aristocrazia romana (Giulio Cesare e Licinio Crasso) i quali, fallita la congiura, non furono perseguitati dal governo ciceroniano. Inoltre, Giulio Cesare aveva fatto ristabilire sul colle Capitolino la statua di Mario coi suoi gloriosi trofei commuovendo vivamente molti popolani.
Se Catilina o Giulio Cesare (che più democraticamente si propose gli stessi fini) fossero riusciti nei loro intenti, l’impero non avrebbe conosciuto tante funeste disgregazioni; probabilmente non avrebbe generato i diversi foschi rappresentanti di quella ristretta classe sociale corrotta e tarata che aveva monopolizzato il potere politico ed economico e che nel secolo precedente, per difendere il proprio egoismo, aveva portato Roma nel caos estinguendo le illuminate voglie riformatrici dei Gracchi e di Mario.

Cicerone, da quel bravo oratore che era, dopo la vittoria su Catilina si montò la testa dichiarando che era stato un avvenimento tanto importante quanto la fondazione di Roma; impose la sua candidatura alla divinizzazione, il Senato prima sorrise a questa richiesta ma poi la decretò. L’esito di questa guerra fratricida dimostra chiaramente che Cicerone si era illuso, credendo d’avere abbattuto una grande fazione. Infatti quella parte di elementi impuri che Catilina aveva messo insieme non aveva potuto prendere la consistenza di un partito politico. Le rivoluzioni sono fatte dalle idee e dai bisogni di una classe numerosa che è o che sta per diventare la maggioranza; le passioni egoistiche di pochi soggetti, invece, non possono produrre che sterili complotti.
Il giudizio sui due estremi rappresentanti, Catilina e Catone Uticense, le eterne opposte tendenze politiche innovatrici o conservatrici è del tutto conforme a quello ancora dominante e rimasto convenzionale nei duemila anni sino ad ora trascorsi: giudizio di netta condanna sul conto del primo, il perturbatore dell’ordine pubblico e di aperta esaltazione nei riguardi del secondo, l’uomo rispettoso dell’ordine e della legalità. Per la verità un giudizio obiettivo sui due personaggi è quanto mai complesso per non dire impossibile, poiché manca chi abbia scritto a quell’epoca in difesa di Catilina e contro Catone Uticense.

È possibile che qualcosa in favore di Catilina sia stato scritto dallo storico Tito Livio nel suo “Ab urbe condita libri”. Ma vuole il caso che della Storia di Livio, il quale seppe sempre conservare dignità e indipendenza di giudizio, sia andata perduta proprio tutta la parte che va dall’inizio delle guerre civili, più vicine al tempo dello scrittore e quindi più documentabili, e da tenere con maggiore cura di quella a noi pervenuta (cioè quella che narra le fantasiose leggende delle origini di Roma).
Ieri come oggi molti sono portati a schierarsi dalla parte del vincitore, dei potenti, dei più; inoltre coloro che scrissero su Catilina appartenevano tutti alla classe privilegiata, erano conservatori come Catone e quindi affezionati al loro sistema di vita
che, in politica, ci si può assicurare solo adeguandoci alle idee predominanti.
La ristretta cerchia sociale che nella Roma repubblicana da generazioni usava e abusava del potere e dei privilegi non poteva accettare un Catilina,
l’empio, il sanguinario, l’ingaggiatore di delinquenti e disanculotti che si era proposto di spazzare via la cerchia oligarchica con una rivoluzione.

EP

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